sabato 5 Ottobre 2024
Rassegna stampa

La lezione di Stefano

Alle cinque in punto in via Hamra, nello storico cuore commerciale della Beirut sunnita, tra due ali di folla tenute a distanza da decine di soldati la banda dell’esercito ha cominciato a intonare l’inno nazionale. «L’orgoglio del Libano è stato esaltato dalla vittoria dei nostri coraggiosi militari, a Nahr al Bared sono state costruite le forze armate di tutti i libanesi», esultava ieri sera un alto ufficiale salito sul palco, decorato per l’occasione con fiori e bandiere con il cedro.
Tanti gli applausi e gli slogan in sostegno degli «eroi» della battaglia contro Fatah al Islam, conclusasi nei giorni scorsi dopo quasi quattro mesi di scontri. Poche ore prima 180 km a nord, a Beddawi (Tripoli), uno dei 12 campi profughi palestinesi in Libano, Abu Khaled, a nome dei Comitati popolari, aveva descritto con tono preoccupato i problemi gravissimi che stanno affrontando gli oltre 30mila sfollati di Nahr al Bared e con loro gli abitanti e le strutture civili di Beddawi.
L’eliminazione – ancora da verificare – di Fatah al Islam, che i comandi militari e l’intera popolazione libanese considerano una vittoria, un «punto di svolta» per la costruzione dell’unità nazionale da sempre fragile in questo paese, per i palestinesi ha significato un nuovo, enorme disastro. Nahr al Bared, dove grazie al commercio con la Siria circa 40mila rifugiati vivevano in condizioni migliori rispetto agli altri campi, è ora una città-fantasma, ridotta in macerie nella parte più vecchia, quella meridionale.
Le cannonate che per giorni hanno preso di mira i palazzi hanno avuto effetti devastanti: per la gente che viveva nelle migliaia di case crollate o danneggiate, da quattro mesi accampata nel minuscolo Beddawi, il rischio di perdere tutto è altissimo. E tanti hanno già perduto tutto, proprio come nel 1948, nella Nakba (in arabo la «catastrofe»). Per loro è sempre più concreta la prospettiva di rimanere bloccati per anni in quel «campo di accoglienza provvisoria» di cui parlano le Nazioni Unite e che dovrebbe vedere la luce nei prossimi mesi.
Sarebbe un nuovo esodo per decine di migliaia di profughi, il pericolo tante volte denunciato da Stefano Chiarini, indimenticato giornalista e mediorientalista del manifesto, che aveva dedicato parte della sua esistenza alla difesa dei diritti dei profughi e alla memoria di oltre 3mila palestinesi massacrati nel 1982 a Sabra e Shatila dalle milizie falangiste libanesi alleate di Israele.
Ieri Abu Khaled, gli altri membri dei Comitati popolari di Beddawi e il direttore di Rinascita Maurizio Musolino, a nome del Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, hanno ricordato a Beddawi l’impegno di Stefano e la sua insistenza affinché non venga cancellato il diritto al ritorno per i profughi palestinesi, sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite. «È nostra precisa volontà continuare l’attività di Stefano, per questo motivo ribadiamo che non potrà esserci una soluzione del conflitto (in Medio Oriente) senza la realizzazione del diritto al ritorno per tutti palestinesi, quelli che vivono in Libano e quelli sparsi in altri paesi» ha detto Musolino.
Negli anni passati, dalla fondazione del Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, Stefano aveva portato in Libano centinaia di italiani, per fargli conoscere la realtà dei rifugiati con incontri e visite ai campi profughi. E per coloro che l’hanno avuto affianco in tutto questo tempo non è facile accettare la sua scomparsa. «Stefano aveva la capacità di darti coraggio, di invogliarti a realizzare progetti ed iniziative. La sua determinazione e pazienza erano fuori dal comune. Non vederlo qui tra di noi, a capo della delegazione italiana, mi lascia senza parole», dice Kassem Aina, direttore della ong palestinese Beit al Atfal al Sumud, con la quale il nostro compagno e collega aveva stabilito un lungo rapporto di amicizia e di lavoro.
Se fosse ancora in vita, Stefano ora sarebbe a Beddawi – camminando a passo svelto lungo le stradine dove i palestinesi hanno affisso i poster con la sua immagine – per studiare come portare solidarietà politica agli sfollati di Nahr al Bared. Perché hanno bisogno soprattutto di aiuto politico i profughi che da settimane vivono ammassati nelle aule della scuola elementare «Bakrak» delle Nazioni Unite.
«Abbiamo perduto tutto, siamo disperati. Quello che vogliamo da voi europei però non sono soldi o cibo, ma una campagna per darci giustizia. Qui in Libano, dove ci negano diritti e non possiamo fare decine di lavori ma soprattutto nei confronti di Israele, che non vuole farci tornare alle case, ai villaggi dai quali i nostri genitori furono cacciati nel 1948. Siamo forse essere umani inferiori agli altri?», si chiede Maysun Mustafa, 25 anni, nata e cresciuta a Nahr al Bared ma che continua a sentirsi di Jesh, il villaggio arabo della Galilea dal quale furono espulsi i suoi nonni.
Aiuto politico prima di tutto ma anche umanitario perché le condizioni di vita degli sfollati sono penose. Nelle aule scolastiche trasformate in stanze vivono fino a 50 persone, le condizioni igieniche peggiorano con il passare delle settimane. Ma è in tutta Beddawi che si soffre.
Manca l’elettricità, per molte ore al giorno e si va avanti con i generatori. Le infrastrutture civili ormai non reggono il peso di oltre 40mila profughi in un campo che potrebbe accoglierne non più di 15mila. Cresce perciò il desiderio di tornare subito a casa. «Sono pronta a vivere tra le macerie piuttosto che restare ancora in questa scuola – protesta Warde Sayyed, 50 anni -. Dateci una tenda e non avremo paura di vivere nel nostro campo».
Un desiderio destinato a rimanere per ora un sogno. Lunedì scorso le Nazioni Unite hanno chiesto finanziamenti per 55 milioni di dollari, ma la ricostruzione di Naher al Bared – alla quale si oppongono i libanesi che vivono nei centri vicini al campo profughi – rimane un’ipotesi vaga.
Secondo Abdallah Al-Hut, responsabile di Beit Atfal al Sumud nel nord del Libano, solo 700 famiglie (circa 7 mila persone) potranno far ritorno a casa entro qualche mese, perché i loro appartamenti sono stati danneggiati lievemente. Le altre case sono da ricostruire. Per i loro proprietari non resta che affidarsi agli aiuti dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, che ha messo a disposizione 600 dollari al mese per 1.700 famiglie, in modo che possano pagare l’affitto di una abitazione. Ma questo aiuto non andrà oltre i tre mesi.
Dall’autostrada che da Tripoli, costeggiando il mare, arriva fino al confine con la Siria, le case abbattute di Nahr al Bared appaiono all’improvviso, quando meno te lo aspetti. Si rimane senza fiato pensando che quello che era il campo con un reddito minimo assicurato da commerci e contrabbando, oggi non esiste più.
L’esercito lo circonda completamente e non permette a nessuno di avvicinarsi, mentre la possibile presenza del leader di Fatah al-Islam, Shaker al-Absi, nelle province settentrionali libanesi insieme ad altre decine di suoi uomini riusciti a sfuggire alla morte o all’arresto, preoccupa le popolazioni locali. Si moltiplicano i rastrellamenti da parte dell’esercito e a finire in manette non sono solo miliziani islamici, ma anche profughi palestinesi, sommariamente sbattuti in carcere e interrogati perché sospettati di far parte di Fatah al Islam e puniti per aver violato l’ordine di rimanere a Beddawi.
«Ma noi dobbiamo lavorare – spiega Samer Zatout, scappato assieme a moglie e figli da Nahr al Bared -. Dobbiamo sfamare le nostre famiglie, come possono obbligarci a rimanere chiusi a Beddawi mentre manca il pane nelle nostre case?»