A Polla accogliere funziona
I migranti, una risorsa. Una forza lavoro per il territorio. A Polla, paese della Valle di Diano (Cilento, Campania) da seimila abitanti a un battito di ciglia dalla Basilicata, funziona così. I richiedenti asilo in arrivo dai centri di accoglienza sono inseriti nel tessuto sociale. Un pezzo del puzzle del paese, come il vecchietto piazzato fuori al bar che conosce tutti, oppure i ragazzini con lo sguardo fisso sul cellulare alla fermata del bus.
Lo Sprar (Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – progetto del comune di Polla gestito attraverso due cooperative sociali – dove risiedono è incastonato nei vicoli del centro storico, a un passo dalle attività commerciali, dalla panetteria. Sono 22 ragazzi (35 contando anche gli Sprar per famiglie nelle vicinanze, che diventano oltre 70, se si tiene conto di altre strutture che ospitano migranti), provenienti da 11 Paesi diversi, si mescolano agli altri. Si rendono utili, per esempio portando la spesa ai più anziani. In inverno hanno spalato via la neve che ostruiva le arterie del centro storico. Pale e carriole, assieme ai volontari della Protezione Civile. E spesso collaborano per la pulizie per le strade cittadine.
Una comunità nella comunità nel sistema Polla. Microcosmo in cui trovano posto anche rumeni, marocchini. Tutti assieme. E senza grosse manifestazioni di intolleranza, senza tensioni sociali oppure proteste, come pure è avvenuto in altre località del Cilento che hanno mostrato in strada i muscoli contro il flusso dei richiedenti asilo, in arrivo soprattutto al porto di Salerno.
Ci sono rifugiati politici, ragazzi che godono di protezione umanitaria, passati agli Sprar dai centri di accoglienza straordinari del Cilento, dove possono prepararsi per il futuro attraverso attraverso tirocini, percorsi di formazione. «I ragazzi interagiscono con i vicini, per loro lavoriamo a un percorso di integrazione e autonomia, allo Sprar i migranti apprendono in pratica le regole per la convivenza civile», spiega Rosa De Maio, coordinatrice dello Sprar, a capo di uno staff da dieci persone.
Dalla raccolta differenziata alla spesa, al consumo dell’energia elettrica, apprendimento quotidiano di regole per la convivenza civile. «I migranti hanno un pocket money, una cifra quotidiana con cui si autogestiscono, così imparano a sapersi amministrare», aggiunge la coordinatrice dello Sprar, che spiega come i ragazzi siano continuamente allertati per lavori in attività economiche del territorio. Una forza lavoro richiesta a domicilio. Dalle pizzerie alle aziende edili, poi supermercati, mobilifici, imprese agricole.
Insomma, un’enclave della tolleranza, della convivenza. E per sensibilizzare le nuove generazioni sul tema dell’immigrazione, abbattendo i residui pregiudizi sul territorio, i migranti dello Sprar di Polla hanno raccontato la loro storia e il loro Paese nella aule dell’Istituto Onnicomprensivo statale di Polla, nell’ambito di un progetto ideato da Intercultura. «È un posto dove viviamo bene, ci sentiamo accettati e proviamo a ricambiare l’accoglienza che ci viene rivolta» spiega Yaya, 24enne senegalese, difensore centrale del Padula (club di Prima Categoria, con idoli Sergio Ramos del Real Madrid e il connazionale Kalidou Koulibaly del Napoli).
In Italia è arrivato quattro anni fa. Prima lo sbarco a Lampedusa direttamente dal Senegal. Poi un salto a Crotone, sino a Padula. Per lui il calcio è una priorità, è stato scoperto dal suo club durante una partitella di calcio a cinque, un sogno da coltivare ma è altrettanto forte l’impegno da mediatore, per rendere più semplice anche dal punto di vista pratico la vita dei connazionali dello Sprar, dei Centri di accoglienza straordinari e dei minori non accompagnati (25 mila arrivati in Italia nel 2016 e con gli stessi diritti dei loro coetanei Ue, secondo la legge approvata da Camera e Senato lo scorso marzo).
Per esempio portando ciabatte e viveri durante gli sbarchi di migranti che avvengono puntualmente a distanza di giorni al porto di Salerno, per poi accompagnarli anche al nord, per l’assistenza pratica prima di essere smistati in altre strutture d’accoglienza.
Lo sguardo diventa triste, il ricordo va a momenti terribili. «Mi è capitato di dover prestare il telefono a ragazzi che dovevano contattare la loro famiglia in Africa per comunicare che il fratello, la sorella, erano morti in mare, che il loro sogno di una vita migliore era rimasto tale. Ho ascoltato pianti, urla, lacrime, sensazioni impossibili da scrollarsi di dosso» racconta Yaya. Anche lui è un pezzo indispensabile della rete capillare, dell’Unità di crisi messa in piedi dalla Prefettura di Salerno per l’accoglienza delle navi che portano migranti nel porto della città campana, poi piazzati al Sud (circa 2500 al momento da Salerno in giù) oppure in strutture del Settentrione.
Dall’Asl alla Capitaneria di Porto, Digos, per una sinergia d’intenti tra soggetti che si riconoscono e che lavorano assieme. E che ha sempre funzionato per i 19 sbarchi negli ultimi tre anni nel porto salernitano.
«Si esce da un ruolo professionale e si entra in una dimensione umana dove la priorità è la tutela della salute di questi ragazzi – spiega don Vincenzo Federico, per 20 anni a capo della Caritas di Teggiano (che sei anni fa metteva in piedi questo modello d’accoglienza, con tre cooperative sociali per la gestione dei Centri d’accoglienza straordinaria) e che ora coordina le attività per gli sbarchi al porto di Salerno – , troppo spesso si dimentica che la questione migranti è decisamente più complessa di come viene raccontata, rappresentata, che ci sono i migranti che finiscono negli Sprar, ci sono i Centri di accoglienza straordinari e i minori non accompagnati che è un mondo completamente diverso, realtà che fanno capo a diversi interlocutori istituzionali. Inoltre i migranti non sono solo un costo ma che in Italia ci sono aziende, realtà che traggono benefici dalla presenza dei migranti, l’indotto economico determinato dalla loro sosta tra Sprar, Centri di accoglienza straordinari, con operatori sottratti alla disoccupazione che ci lavorano. Sarebbe il caso che tutti meditassimo sui messaggi che ci arrivano sui migranti, anche dai media. Troppo spesso diventano il contenitore della rabbia degli italiani».