sabato 27 Luglio 2024
Mafia

Roma, una sentenza che non cancella la mafia

Si continuerà a discutere per molto tempo della sentenza del Tribunale di Roma. Una «sentenza di mezzo», per usare un’espressione cara a Carminati che, se per metà da torto all’impianto della Procura, dall’altro conferma, anche attraverso condanne esemplari, il rigore delle indagini, la documentazione dei fatti e la gerarchia delle responsabilità ricostruite dall’accusa sia nella sfera dell’organizzazione criminale che nel mondo della politica e della pubblica amministrazione. Intanto un’organizzazione c’è, criminale, con un vincolo associativo e un livello di omertà – pari a qualunque contesto mafioso – che ha portato a due secoli e mezzo di condanne senza «pentiti».

Ora bisognerà capire perché il Tribunale ha deciso di dividerla in due: quella degli «spaccapollici», che con la violenza e il terrore imponevano pizzo, praticavano estorsioni e usura, e assoggettavano imprenditori, commercianti e cittadini e quella fatta dai corruttori che piegavano al loro volere politici e funzionari pubblici «mettendosi la minigonna» per salire le scale del Campidoglio.

Il tribunale dice che il capo era unico, Carminati, ma il metodo mafioso, nonostante la disponibilità della violenza non è riscontrabile. Lo aveva riscontrato invece la sentenza della Cassazione del 2015 che, pronunciandosi su una misura cautelare nell’ambito dell’inchiesta, aveva chiarito che per configurare l’associazione mafiosa «non è indispensabile che la forza intimidatrice si diriga contro la vita o l’incolumità delle persone assoggettate, perché può essere acquisita anche da una struttura organizzativa che, con l’uso di prevaricazione e sistematica attività corruttiva, eserciti condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti e nel controllo dell’attività degli enti pubblici».

Se si tratti di un’interpretazione estensiva del 416 bis sarà ancora oggetto di dibattito, certo è che i fatti portati alla luce dalla Procura di Roma e sanzionati con condanne mai viste prima per reati di corruzione, stanno tutti nei profili individuati dalla Suprema Corte. Fatti gravissimi, con un «mondo di mezzo», dove la convivenza tra criminali, imprenditori ed esponenti di destra e sinistra era determinata da una consapevole convenienza.

La sentenza conferma il lavoro di Pignatone e dei suoi sostituti. Non si era mai arrivati a tanto nel «Porto delle nebbie» e nemmeno in un Paese dove su una popolazione carceraria di oltre 50.000 persone, i detenuti per reati di corruzione riciclaggio e contro la pubblica amministrazione sono solo 228. Per questo l’avvocato di Carminati ha rivendicato che solo di quattro cazzari si trattava. Lo stesso entusiasmo di Giachetti, Gasparri e Fassina, sollevati dal vivere in una Roma senza mafia. È la logica che ha legittimato politicamente il sistema di Buzzi e Carminati.

La mafia è ripugnante, spara, ha fatto le stragi, crea indignazione. La corruzione no; è parte della vita quotidiana, è accessibile a tutti e tutti prima o poi la possono usare per i propri fini. Se poi il fine è pure sociale – le cooperative dei poveri cristi – è un buon alibi anche per la sinistra. Almeno fino a quando non si scopre che le politiche dell’accoglienza erano diventate un affare più grosso della droga, della quale la Capitale, benché purificata dallo spettro mafioso, rimane pur sempre la principale piazza di spaccio. Chissà gestita da chi, c’è da chiedersi ora.

È bene però non isolare questa sentenza dall’azione giudiziaria di questi anni: sequestri per miliardi di euro hanno dimostrato quanto il tessuto economico e finanziario della Capitale sia largamente in mano a mafia ’ndrangheta e camorra; centinaia di anni di carcere per clan mai toccati prima, dai Casamonica agli Spada ai Pagnozzi, a volte con sentenze schizofreniche, come per i Fasciani, assolti per mafia in primo grado e condannati in appello.

Evidentemente è ancora da conquistare una cultura giuridica in grado di comprendere contesti e metodologie dell’agire mafioso. Ma questo riguarda i giudici. Più grave è il silenzio della sinistra, incapace di affrontare questi temi fuori dalla propaganda, lasciando senza analisi le trasformazioni dell’economia e il ruolo della finanza criminale, il rapporto tra pubblica amministrazione e imprese e la subalternità al sistema della politica romana. Questo avrebbe dovuto accompagnare un processo che è andato avanti in un cono d’ombra mediatico e nel silenzio dei movimenti antimafia. Si è preferito aspettare la sentenza e commentarla. Magari per ricominciare tutto come prima.