mercoledì 9 Ottobre 2024
Medioriente

Gerusalemme «unita» è la città più divisa

Situato alle spalle della centrale via Giaffa e di fronte agli uffici del ministero dell’interno che rilasciano i visti di soggiorno, al negozio e studio fotografico della signora Lilia non mancano i clienti. «Qualche volta va bene, altre meno. Questo è il commercio», commenta la donna. Poco più avanti israeliani e turisti affollano i caffè di tendenza. L’atmosfera è serena. È una giornata come le altre nella zona ovest, ebraica, di Gerusalemme ma a poche centinaia di metri la tensione è alta. Mai come in questi giorni Gerusalemme conferma di essere una città divisa, spaccata in due, malgrado i proclami di unità sotto la sovranità israeliana. Superando il Municipio già appaiono le mura della città vecchia e Porta Nuova. Comincia la zona est, araba, occupata nel 1967 dall’esercito israeliano e annessa unilateralmente allo Stato ebraico. Gli abitanti palestinesi da giorni protestano e manifestano – l’hanno anche ieri, per ore, alla Porta di Damasco e in via Salah Edin – contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto dal presidente americano Donald Trump, un altro atto unilaterale, contro le risoluzioni internazionali. E l’Amministrazione Usa ha fatto sapere di considerare anche il Muro del pianto, nella città vecchia, già parte di Israele. «Non accetteremo alcun cambiamento sul confine di Gerusalemme est», ha replicato Nabil Abu Rudeineh, il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen.

Lilia ammette di non andare mai nella zona araba. Allora, chiediamo, perché volete tenerla tutta questa città? «Mio padre diceva che l’unica città dove avrebbe vissuto è Gerusalemme perché Gerusalemme è del popolo ebraico. Aveva ragione», ci risponde. La storia, replichiamo, però racconta di una città di eccezionale importanza anche per i palestinesi, per gli arabi, per i cristiani e i musulmani nel mondo. «Tutti hanno diritto di pregare a Gerusalemme, di visitarla, ma la città è di Israele», insiste Lilia. Frasi simili a quelle che, in questi giorni, pronuncia il premier Netanyahu. Su Gerusalemme gli israeliani sono un po’ tutti Netanyahu. Nazionalisti, religiosi, progressisti, di ogni fede politica, ceto sociale e livello d’istruzione. Solo una minoranza esigua vorrebbe la città capitale di Israele e Palestina. D’altronde fu l’establishment laburista, fondatore del Paese che, appena occupata ai primi di giugno del 1967, dichiarò la zona araba annessa a Israele. «Questa mattina l’Idf (le forze armate) ha liberato Gerusalemme. Abbiamo riunito la Gerusalemme divisa, la capitale di Israele che era stata divisa in due. Abbiamo fatto ritorno ai nostri luoghi più sacri e siamo tornati per non abbandonarli mai più», proclamò il ministro della difesa Moshe Dayan già il 10 giugno dopo essere entrato nella città vecchia.

Intento a sorseggiare il suo afuk, il cappuccino in versione locale, Motti, un impiegato, non si scompone quando gli domandiamo la sua opinione sulle proteste palestinesi. «Strilleranno un po’ come fanno sempre, poi la smetteranno e finirà tutto questo clamore. Gerusalemme è di Israele, devono rassegnarsi», ci dice. Il suo collega, Shlomi è più ruvido: «se agli arabi non piace l’autorità di Israele allora posso andare via dalla città, nessuno li trattiene». Al caffé Hillel dove Shlomi ci illustra la sua “soluzione” non giungono i boati delle granate assordanti che la polizia lancia in questi giorni per disperdere i manifestanti palestinesi che si radunano alla Porta di Damasco, l’ingresso principale della città vecchia. A Gerusalemme ovest si vive un’altra vita rispetto alla zona est dove gli israeliani non vanno mai. Chi va al Muro del Pianto lo fa attraverso la Porta di Giaffa, lungo una strada che costeggia ma non entra nel mercato palestinese. All’interno di quella che Israele proclama la sua capitale unita e indivisibile, le vite di israeliani e palestinesi non si incontrano quasi mai. E quando avviene è quasi sempre per motivi di lavoro – i palestinesi occupati nel settore ebraico – o perché ci si ritrova negli stessi uffici pubblici. Non c’è coesistenza nella Gerusalemme della dichiarazione di Donald Trump ma indifferenza degli uni verso gli altri. Gli israeliani controllano la città ma i palestinesi non smettono di considerarli gli occupanti.

E l’occupante impone la sua legge. Musa, ci chiede di non pubblicare il suo cognome, è un manovale e vive nel sobborgo palestinese di Jabal al Mukaber. Da quando Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele è molto preoccupato. Teme che il comune si senta autorizzato, più di prima, a demolire le abitazioni che i palestinesi costruiscono senza il permesso edilizio. «Per anni gli israeliani hanno sempre respinto la mia richiesta ma ho cinque figli che stanno diventando grandi e ho deciso di costruire per loro una casa», ci spiega. Il comune parla di lotta «all’abusivismo edilizio» ma dalla finestra della casa di Musa si scorgono palazzine e villette di Armona HaNetsiv, una delle colonie ebraiche che Israele ha edificato in violazione delle leggi internazionali nella zona est di Gerusalemme. «Se mi porteranno l’ordine di demolizione sarò costretto ad abbattere la casa con le mie mani, per evitare di pagare una multa salata. Non ho quei soldi», ci dice Musa. Il comune infatti presenta agli “abusivi” il conto delle spese della demolizione, tra 15 e 20mila dollari. Quest’anno già 22 famiglie palestinesi hanno distrutto le loro case. Lo scorso anno sono state 28. L’articolo 53 della IV Convenzione di Ginevra IV probisce all’occupante la distruzione delle case e delle proprietà dell’occupato, se non per operazioni militari assolutamente necessarie. Ma Trump della Convenzione di Ginevra forse non ha mai sentito parlare.