Mercoledì va in scena al Senato la commedia sull’oro della patria
Lega e Cinque Stelle hanno ripreso in mano la pistola scarica della proprietà dell’oro della Banca d’Italia. Il 28 marzo scorso è stata presentata una mozione di maggioranza in cui Alberto Bagnai (Lega) e Laura Bottici (M5s) hanno chiesto al governo, a nome della maggioranza, di «adottare le opportune iniziative al fine di definire l’assetto della proprietà delle riserve auree detenute dalla Banca d’Italia nel rispetto della normativa europea».
La mozione è stata calendarizzata mercoledì in aula al Senato, insieme ad altre due di Fratelli d’Italia e del Pd. Rispetto al rumore prodotto da una proposta di legge presentata dal presidente della Commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi (Lega) e da un’altra di Fratelli d’Italia che punta a «nazionalizzare» la Banca centrale che è già pubblica, nel testo della maggioranza c’è una variazione sul tema. Al governo è stato chiesto di «adottare le iniziative opportune per acquisire, anche attraverso la Banca d’Italia, le notizie relative alla consistenza e allo stato di conservazione delle riserve auree ancora detenute all’estero e le modalità per l’eventuale loro rimpatrio, oltre che le relative tempistiche». I famosi lingotti sono dislocati, oltre che nel caveau di Via Nazionale in diversi paesi dagli Stati Uniti all’Inghilterra. Il loro valore oscilla tra 80 e 90 miliardi di euro, a seconda del prezzo del giorno. Sulle attività complessive di Bankitalia, pari a circa 900 miliardi di euro, valgono dunque meno del 10%.
Secondo un retroscena ricorrente in queste settimane a qualcuno dalle parti del governo e della maggioranza sarebbe venuta l’idea di usare i lingotti per tappare i buchi prodotti dalle misure elettorali della «quota 100» e del «reddito di cittadinanza» farlocco che hanno imposto l’aumento delle «clausole di salvaguardia» contro l’aumento dell’Iva. Nella prossima legge di bilancio i penta-leghisti dovranno trovare, innanzitutto, 23 miliardi di euro per bloccarlo. Da qui le voci insistenti sul ricorso all’«oro della patria». Queste risorse, è stato sostenuto da più parti, compreso il presidente del Consiglio Conte, non possono essere invece usate per le politiche economiche del governo.
Su questo equivoco è stato impiantato un diversivo ricorrente nel primo scorcio di legislatura, alimentato da un’incertezza di fondo che sembra emergere nell’articolo 127 del trattato dell’Ue che attribuisce alla Banca Centrale Europea il compito di «detenere e gestire le riserve ufficiali» dei paesi aderenti all’Eurozona. Secondo il direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, è la Banca centrale europea ad avere il potere di stabilire a chi appartenga l’oro della Banca d’Italia. Tuttavia Via Nazionale è la terza maggiore azionista della Bce e, in quanto tale, detiene anch’essa il suo oro. A questa conclusione ha alluso, di recente, anche il governatore Ignazio Visco secondo il quale la Banca d’Italia «è un ente pubblico e non privato» e «l’oro è suo, per questo non può essere usato per finanziare il Tesoro». La prima affermazione non esclude l’altra. In questo senso si è espresso anche il presidente della Bce Mario Draghi secondo il quale, a norma di Trattati, è la Bce a «detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri». Il fantasiosamente causidico Borghi ha commentato che «detenere è cosa diversa dalla proprietà». E tutto riparte da capo per fare pressioni sulla Banca d’Italia in una partita simbolica per una compagine che ha un certo affanno nel dimostrare una «sovranità» nella politica economica e aspetta le elezioni europee del 26 maggio per regolare i conti al suo interno. Più complicati da risolvere saranno quelli economici di una legge di bilancio che si annuncia drammatica.