È lo shale l’arma in più di Trump
Project Icewine ha un obiettivo ambizioso: spedire tonnellate di sabbia, acqua e sostanze chimiche in capo al mondo, l’Alaska della North Slope. Lungo 280.000 ettari di Circolo Polare Artico che nascondono, si dice, 3,6 miliardi di barili di petrolio. Un tesoro da giacimenti leggendari. Pronto adesso a essere conquistato con il fracking, le sempre più sofisticate tecnologie di fratturazione idraulica al cuore del nuovo – il secondo – boom dello shale, il greggio e gas naturale di scisto. Non a caso a guidarlo è un geologo e pioniere dello shale, Paul Basinski, con la sua Burgundy Xploration.
Project Icewine, è il caso di dirlo, è la punta dell’iceberg della nuova rivoluzione. Che, facendo leva su rapide innovazioni che hanno ridotto i costi e moltiplicato l’efficienza, ha portato nel giro di pochissimi anni lo shale dalla crisi alla riscossa. Capace di mettere all’angolo l’Opec. E di dare sostanza alla retorica di Donald Trump sul “dominio energetico” americano nel mondo, dal greggio a nucleare e carbone. Il presidente, al Department of Energy, ha promesso ieri di «scatenare l’energia» a suon di «migliaia di miliardi per lo sviluppo», facilitati dalla deregulation per un Paese che diventerà esportatore netto a fine decennio, sfruttando giacimenti di un quinto superiori all’Arabia Saudita. «Sarà un’epoca d’oro e esporteremo ovunque».
Le nuove tecnologie hanno aperto frontiere, come l’Alaska, nel recente passato penalizzata dalla difficoltà di estrarre il suo oro nero tanto da vedere la produzione cadere di tre quarti, a 520.000 barili l’anno, e rilanciato la produzione nelle tradizionali patrie dello shale, quali il Permian Basin in Texas. Nel primo caso è chiave il ricorso al 3-D imaging; nel secondo si sono aggiunte le trivellazioni orizzontali, tanto da far triplicare l’estrazione di gas entro il 2020 e a sfornare 4 milioni di barili di greggio al giorno fra un decennio, alla pari con l’intero Iraq. Con la crescita fioccano investimenti multimiliardari, da società del settore come Kinder Morgan e Chevron (15 miliardi nel Permian), Shell e Exxon Mobil (25 miliardi tra Texas e North Dakota), fino a finanziarie quali il Blackstone Group. Il boom è tale che, in Texas e Oklahoma, è tale da dar adito ai “frack hit,” dove centinaia di pozzi pre-esistenti sono stati danneggiati dall’avanzata di enormi progetti.
Risultato è che dal 2010 l’output di petrolio è quasi raddoppiato. Una caduta dei prezzi aveva inizialmente scatenato 120 bancarotte e decine di miliardi di perdite. Da queste ceneri è tuttavia decollata la nuova stagione: Chevron ha tagliato i costi per barile del 30% e il break-even nello shale è in media calato di 10 dollari a 42-45 dollari, con punte a 30 o 20 dollari. Nel prossimo biennio, stima Goldman Sachs, è atteso un incremento record nella produzione dei “mega-projects”. È ormai dal 2013 che l’estrazione domestica supera l’import di greggio, nel 2017 raggiungerà i 9,2 milioni di barili al giorno e nel 2018 i 10 milioni. Con la produzione aumenta l’esportazione, iniziata nel 2015 togliendo un divieto quarantennale: a marzo è stata di 830.000 barili al giorno, in rialzo del 64%, e la media mensile è vicina al milione. Oggi gli Usa sono il terzo produttore mondiale e il settore impiega 6,4 milioni di persone.
L’impennata si è estesa a comparti contigui: i progetti petrolchimici fioccano – almeno 310, per 185 miliardi – in risposta alla domanda di materiali plastici. La chimica conta per metà degli investimenti manifatturieri, spesso con gli stessi protagonisti. Exxon con i sauditi sta costruendo il più grande stabilimento mondiale in Texas, a Corpus Christi, da 9,3 miliardi. Entro il 2025 il comparto dovrebbe portare in dote 294 miliardi al Pil e 462.000 impieghi ed entro il 2027 l’export dovrebbe balzare a 110 miliardi da 17 del 2016.
Nella campagna dell’amministrazione non manca un paradosso: tra i tagli al budget federale dimezza i fondi dell’Office of Fossil Energy. L’ufficio che ha sperimentato le tecnologie per lo shale nel 1975 e che però oggi, guardando al futuro e alle ragioni ambientali, investe piuttosto sulle fonti rinnovabili.
Articolo di Marco Valsania