sabato 27 Luglio 2024
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Qualche riflessione sul terrorismo

Del recente attentato, tremendo, a Barcellona colpisce innanzitutto il fatto che le vittime provengano da 35 differenti nazionalità, come se questo atto terroristico volesse esprimere un attacco alla città simbolo dell’accoglienza e dell’inclusione.

Bisogna quindi prendere atto che c’è una parte di mondo che vuole contrastare ciò che noi consideriamo “il nostro libero modello di vita”.

A mio avviso questo contrasto non può essere superato unicamente con l’uso della repressione, ma è necessario principalmente uno sforzo di confronto con quella parte di mondo che, nascosta, tende a isolarsi sempre di più per poi sfogare in questi terribili atti di terrorismo.

Provo a spiegare meglio il mio punto di vista riportando alcune riflessioni di giornalisti, certamente più autorevoli del sottoscritto, le cui letture ho trovato particolarmente interessanti e che propongo ai lettori del sito di Fuoritempo.

“Non avere paura di farsi qualche domanda”

di Luciana Castellina da Il Manifesto del 20/08/2017

[…] C’è qualcosa che non mi convince nella ormai ripetuta proclamazione dei nostri valori, non sono certa che la nostra idea di libertà sia davvero così acriticamente proponibile ad un mondo in cui la maggioranza degli esseri umani ne sono stati privati.

So bene che a proporre questo discorso si entra su un terreno scivoloso, quasi si volesse negare l’importanza dei diritti e delle garanzie individuali che la Rivoluzione francese ci ha conquistato, così come il sistema democratico-borghese che accorpa oramai quasi tutto l’occidente. Non vorrei scambiarlo con nessun altro sistema attualmente vigente, quale che sia la sua denominazione. Per questo, del resto, penso si debba difendere un’idea di Europa che lo salvaguardi dal vortice terrificante che attraversa il mondo.

E però non posso non chiedermi se questo modello, questa idea di libertà, possono davvero risultare convincenti per chi ne vive la contraddizione, per chi abita l’altra faccia del modello: una moltitudine di esseri umani, quelli che disperatamente attraversano il Mediterraneo e vengono respinti; chi vive nelle desolate periferie urbane e patisce una discriminazione di fatto; chi abita i villaggi del Sahel o mediorientali.

[…] Sappiamo oramai anche che è ben lungi dall’essere esaurito il reclutamento di giovani jihadisti pronti a morire. Che provengono dall’Oriente, dal Sud, ma sempre più spesso anche dalla strada accanto. Contro di loro non c’è polizia che tenga, una sicurezza militare è impossibile.

La sola ancorché ardua via da imboccare sta innanzitutto nell’interrogarsi su cosa muove l’odio di questi ragazzi. Non l’abbiamo fatto abbastanza. Non ci riproponiamo la domanda con altrettanta forza quando ribadiamo la superiorità della nostra idea di libertà. E così questo nostro atto di coraggiosa resistenza rischia di suonare inintellegibile a chi di quella libertà gode così poco. Perché chiama in causa non solo il nostro orrendo passato coloniale, le responsabilità per le rapine neocoloniali del dopoguerra, il razzismo di fatto, le sanguinose, offensive guerre che continuiamo a produrre con la scusa di portar la democrazia.

[…] Ripensare il nostro stesso, superiore modello di democrazia, ripensarlo con gli occhi dell’altro, dell’escluso, sforzarsi di capire la rabbia che induce al martirio. Non per giustificarlo, per carità, e neppure per chiudere gli occhi sulle occultate manovre di potere che guidano e finanziano il terrorismo. Ma – ripeto – per capire e impegnarsi a ripensare il nostro stesso modello di civiltà, all’ individualismo che la caratterizza, tant’è che la democrazia la decliniamo sempre più in termini di diritti e garanzie personali, non come rivendicazione di un potere che deve riuscire a liberare l’intera umanità.

“Poca scuola, molto carcere: il profilo del jihadista iberico”

di Giuseppe Grosso da Il Manifesto del 20/08/2017

Uomini, per la maggior parte tra i 18 e i 38 anni, con basso livello di scolarizzazione. Di nazionalità marocchina, soprattutto, ma anche, in proporzione quasi pari, ragazzi nati e cresciuti in Spagna.

Questo è il profilo tipico del jihadista iberico, secondo uno studio coordinato dal Professor Fernando Reinares per il Real Instituto Elcano, condotto su 178 persone arrestate tra in Spagna tra il 2013 e il 2016 per attività connesse al terrorismo jihadista.

Immediatamente spicca il dato sull’istruzione, a conferma del fatto che la propaganda estremista attecchisce là dove non incontra la barriera di una basa culturale adeguata.

Ma esiste anche un problema socio-demografico, legato a doppio filo a quello dell’istruzione: un quarto dei detenuti non aveva lavoro o viveva di occupazioni saltuarie, alternando l’attività jihadista alla delinquenza e la criminalità comune: di nuovo, un contesto di emarginazione sociale, è brodo di coltura perfetto per aspirazioni violente di rivalsa o di vendetta (si noti che in tutti i soggetti analizzati la radicalizzazione è iniziata a partire dal 2011 o 2012, cioè dopo lo scoppio della guerra in Siria).

“Noi prigionieri dell’epoca del presente remoto”

di Sarantis Thanopulos da Il Manifesto del 20/08/2017

Cercare risposte nel fanatismo religioso è fuorviante. L’integralismo islamico è usato come strumento affettivamente anestetizzante, più o meno come sostanza dopante.

Gli autori delle stragi non hanno un passato credibile di fedeli, spesso la loro adesione a stereotipi religiosi di discriminazione dell’altro è il prodotto di un cambiamento di visuale rapido. Non sono neppure dei veri e propri diseredati sociali, anche quando sono inseriti, in modo piuttosto marginale, in ambienti illegali. Le loro famiglie di origine appaiono, il più delle volte, piuttosto integrate, almeno sotto il profilo economico.

Questi automi che uccidono colpendo nel mucchio, sono in realtà disadatti totali (pure se vengono descritti come «normali»), degli psichicamente diseredati. Privi di qualsivoglia speranza di dare senso e profondità alla loro esistenza, sono costretti ad agire al posto di sentire. Agli psicoanalisti è ben noto il fenomeno dell’acting: la riduzione in pura azione dell’immaginazione e dei sogni, nonché dei propri sentimenti e della possibilità di pensarli e significarli. Consente la scarica della tensione legata ai conflitti psichici ed evita la fatica, a volte insostenibile, della loro elaborazione.

[…] Il gettarsi con dei camion o auto sulla folla o l’uccidere per accoltellamento non sono una pura «convenienza» logistica. Hanno una loro valenza simbolica: la vita come violenza dell’ «incidente», del caso, che annulla la causalità psichica (la possibilità di significarla) o la supremazia della forza inumana del «metallo» sulla «carne viva» dell’esperienza affettiva. La visuale esistenziale cieca dei diseredati psichici che uccidono per non vivere – identificandosi con il potere metallico della morte, della casualità, preterintenzionalità dell’esistere – si riflette nella cecità etica della nostra civiltà attuale che la genera.

“Vi spiego perché il terrorismo non c’entra con la religione”

di Dacia Maraini da La7

A una domanda su cosa possa spingere dei giovani a trasformarsi in terroristi, Dacia Maraini ha risposto: “C’è un vuoto, perché non ci sono più ideologie, utopie e allora c’è un innamoramento della morte che seduce spesso i giovanissimi e dà loro uno scopo perverso e mostruoso, che però appunto seduce molto.

Lo abbiamo visto al tempo del nazismo, in cui c’era stato l’innamoramento della morte, l’idea del sacrificio e di dedicare la vita a qualcosa che può essere un Dio o un progetto politico. Ma qui la religione non c’entra assolutamente nulla, come non c’entra la politica: viene solo riempito un vuoto. Più lo Stato Islamico come istituzione perde terreno nelle varie città in cui si combatte e più loro cercano di reagire attraverso un terrorismo guerrigliero molto difficile da prevedere e combattere, poiché affidato all’entusiasmo, alla passione e alla fedeltà di alcuni singoli. Ma prevedere un’azione di questi singoli è quasi impossibile“. Prima di aggiungere: “C’è un Islam che si rivolta contro se’ stesso perché le prime vittime di questo Islam violento sono proprio gli islamici. Noi parliamo molto di quanto avviene in Europa, ma se uno fa i conti vede che la quantità di morti e feriti è superiore nei paesi musulmani, dove è in corso una guerra interna sul modo di intendere l’Islam.

Sul fatto che l’Islam moderato debba prendere maggiormente le distanze da quanto accade, la Maraini ha detto: “Si tende a semplificare, è come dire che siccome in Sicilia c’è la mafia, allora tutti i siciliani sono mafiosi. Forse nei giornali non ne parliamo ma nei paesi arabi, su tutti Marocco e Tunisia, ci sono state molte manifestazioni per prendere le distanze dal fanatismo religioso. Solo che la loro voce non arriva da noi. Il punto è che il terrorismo ha bisogno dei media, della pubblicità e del fatto che se ne parli, per creare paura. Ma tutto questo con la religione non c’entra nulla. Se uno studia la storia vede che tutti i movimenti terroristici, anche quelli italiani del passato, si basano sul creare paura e fare minacce. Almeno gli anarchici uccidevano i Re, i principi e i potenti, mentre questi se la prendono con la povera gente per strada, sono dei vili che non hanno nulla a che fare con la religione“.