Greenpeace porta la giustizia al club dei potenti della terra
Già riuscire ad arrivare a Davos è stata un’impresa. Un piccolo drappello di attivisti di Greenpeace c’è riusciuto nonostante neve e controlli ed ha portato in dono al World economic forum che ogni anno trasforma la cittadina svizzera nel centro del mondo globale una miniatura di una statua della giustizia. Il simbolo dell’equità è stato usato a pretesto per testimoniare la sua totale assenza sul nostro disastrato globo. Messo sulle bilance della dea Dike è il peso delle multinazionali a zavorrare il mondo contemporaneo.
LO SCOPO DELLA PROTESTA di Greenpeace è chiedere ai governi di interrompere gli abusi delle multinazionali sull’ambiente e le violazioni dei diritti umani. «A Davos l’élite finanziaria ed economica del pianeta discuterà di come “realizzare un futuro condiviso in un mondo fratturato” ma la vera agenda resta quella che mira a espandere il potere delle aziende multinazionali creando profitti a spese dei cittadini e dell’ambiente – dichiara Matthias Wüthrich di Greenpeace Svizzera – . Se davvero vogliamo proteggere questo fragile pianeta, abbiamo bisogno di giustizia al cuore della governance globale», conclude. È stata infatti l’occasione per presentare un rapporto recentissimo preparato dalla stessa Greenpeace International dal titolo «Giustizia per le persone e per il pianeta» che individua dieci principi fondamentali necessari per ottenere regole efficaci e vincolanti sui comportamenti e sulle responsabilità delle imprese. Piuttosto che imporre tali regole, troppi governi hanno – volontariamente o meno – reso possibile «un clima di sostanziale impunità per le aziende» «e porre fine all’era della collusione tra multinazionali e governi», denuncia Greenpaece.
SI TRATTA DI UN DECALOGO di «dieci principi per la responsabilità delle imprese». Si va dalla richiesta di «partecipazione pubblica nei processi di elaborazione delle politiche» alla globalizzazione della tutela ambientale: «Le multinazionali devono essere soggette a norme vincolanti sia nei luoghi in cui hanno sede che in quelli in cui operano» e «devono essere responsabili in caso di violazioni commesse da altre società sotto il loro controllo» così come «gli Stati devono promuovere azioni coordinate che vietino alle multinazionali di svolgere all’estero attività che nel loro paese sono vietate». Gli altri concetti chiave sono quelli di «trasparenza» in tutte le attività aziendali, comprese le fiscali e finanziarie» e garanzia globale di giustizia: «Alle vittime di violazioni dei diritti umani ed ambientali deve essere garantita la possibilità di ricorrere contro le aziende nei loro paesi di origine».
IL RAPPORTO POI ANALIZZA ventuno casi specifici che dimostrato come il potere delle aziende sia stato sfruttato ripetutamente per realizzare abusi e violazioni di diritti umani e ambientali. I casi denunciano deforestazione, inquinamento idrico e atmosferico e da plastica, scarico di rifiuti, sversamenti chimici, disastri nucleari, violazioni dei diritti delle comunità indigene, repressione civile e legale dei difensori dei diritti umani e ambientali, elusione fiscale, corruzione, negazione del cambiamento climatico e manipolazione fraudolenta del dibattito pubblico. A perpetrarli giganti del calibro di Chevron, DowDuPont, Exxon, Glencore, Monsanto, Nestlé, Novartis e Volkswagen.
TRA I CASI ANALIZZATI c’è quello anche che riguarda la Icig, una multinazionale con sede in Lussemburgo che dal 2009 controlla l’azienda veneta Miteni. Per decenni, come denunciato sul Manifesto, Miteni ha sversato nell’ambiente sostanze chimiche che oggi espongono 350 mila persone fra Padova, Verona e Vicenza a rischi sanitari gravi. Tuttavia, non esiste un meccanismo normativo chiaro per definire la responsabilità di Icig: la dottrina normativa del «velo societario» tratta le controllate di una azienda multinazionale come entità separate, anche quando una ha il totale controllo delle altre.