Racconto di un Mzungu
“Mzungu” è stato il mio nome per venti giorni. È il termine con cui i burundesi chiamano gli europei, bianchi; ma non è offensivo, è solo indicativo. Sentire urlare “Mzungu!” ovunque andassi è stato strano per i primi giorni, ma poi mi sono abituato. E ovviamente mi sono dovuto abituare a tante altre cose come l’assenza dell’acqua corrente nel posto dove alloggiavo, perché ero in uno dei posti più poveri del mondo ma, ora che sono tornato in Italia, ritengo che quelle difficoltà abbiano reso quest’esperienza ancora più intensa. Ed è stata intensa, perché ciò che ho visto credo mi abbia cambiato la vita, facendomela rivalutare. Infatti ogni volta che andavo nei villaggi dei Pigmei, gli emarginati, e vedevo tutti i bambini corrermi incontro, ridendo, cantando e ballando, era inevitabile chiedermi come potessero essere così felici in quella situazione di estrema povertà. Dopo qualche giorno credo di aver capito la motivazione di così tanta, autentica felicità: a differenza nostra quelle persone non progettano nel futuro e non vedono aldilà del presente, perché il futuro per loro non è assolutamente scontato. La loro condizione non garantisce la certezza di essere vivi domani, quindi ogni giorno va vissuto pienamente. E ogni cosa possa succedere durante la giornata non potrà raggiungere la felicità data dalla possibilità di vivere. Bisogna quindi iniziare a non dare per scontata la vita, per apprezzarla davvero ed essere felici di ogni singola cosa. E aldilà di tanti ricordi, colori, dettagli ed emozioni che porterò sempre con me, questo è il più grande regalo che l’Africa mi ha fatto, e credo che per me la vera missione cominci ora: riuscire ad applicare questo insegnamento e condividerlo con più persone possibili.