La legge non è uguale per tutti
Caro direttore, con la prescrizione il reato si estingue per decorso del tempo, non è più procedibile. Accade in tutti i Paesi, ma solo da noi fa litigare così tanto. Ciò avviene per due principali motivi.
Primo – I nostri processi durano un’eternità, il che causa centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Per cui quel che altrove funziona come rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a concludere, da noi si è strutturato come fenomeno patologico. Difatti la percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11 %, contro quella dello 0,1/0,2% degli altri Paesi europei. Un vero disastro. Favorito dal fatto che solo in Italia (prima della riforma del 1° gennaio 2020) non erano previsti casi in cui la prescrizione si interrompesse definitivamente; c’erano solo sospensioni temporanee.
Secondo – La prescrizione intacca persino il principio di eguaglianza. Per «colpa» della prescrizione, infatti, coesistono nel nostro sistema due distinti codici. Uno per i «galantuomini» (le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, «per bene» a prescindere…); l’altro per i cittadini «comuni». I «galantuomini» possono contare su difese costose e agguerrite, in grado di sfruttare le eccezioni d’ogni tipo generosamente offerte da una procedura malandata. Così, il processo può ridursi all’attesa che il tempo si sostituisca al giudice finché la prescrizione non riuscirà ad ingoiare tutto. Mentre per i cittadini «comuni», nonostante la durata biblica, il processo riesce più spesso a concludersi, segnando vita, interessi e relazioni delle persone coinvolte. Una asimmetria incostituzionale, fonte di ingiustizia e disuguaglianze. Un «doppio» processo al quale ha dato un forte contributo proprio la prescrizione «infinita» (senza mai uno stop definitivo), in quanto incentivo a far durare all’infinito certi processi, di modo che i «galantuomini» non paghino dazio. Il che consente di ritenere che non sono gli aspetti tecnici, ma l’ importanza di certi interessi in gioco a scatenare la bagarre sulla prescrizione.
Il nodo dei tempi
Andrebbe fatto funzionare meglio l’appello, che da solo «brucia» il 48% della durata totale del processo
Le cose sono cambiate il 1° gennaio 2020, con la norma (inserita nella cosiddetta «spazzacorrotti») secondo cui la prescrizione si interrompe con la sentenza di primo grado (anche di assoluzione) fino alla sentenza definitiva. Impossibile calcolare gli effetti della riforma dopo un solo anno, anche perché nel 2020 il Covid ha stravolto tutto, causando una pesante contrazione del numero dei processi trattati.
Del tutto impossibile quindi stabilire se la riforma sia riuscita ad impattare in qualche modo sulla iniquità del «doppio» processo. Così pure è impossibile dire se avessero ragione (e in che misura) coloro che preconizzano effetti nefasti perché dopo la sentenza di primo grado si aprirebbe la prospettiva di una pendenza perpetua dei processi, non essendo più previsto un termine entro cui debbano essere conclusi, con grave pregiudizio per tutte le parti in causa. Com’è impossibile verificare sul campo la tesi (ragionevole) secondo cui, se è vero che con la riforma alcuni processi potrebbero restare pendenti in appello per un tempo relativamente più lungo, è altrettanto vero che il rischio riguarderebbe alcuni casi soltanto e non «tutti» i processi. E sarebbe in ogni caso un rischio bilanciato dall’azzeramento dei casi in cui — con la prescrizione — la giustizia deve riconoscere il suo fallimento, negando all’innocente l’assoluzione o regalando al colpevole l’impunità. E ciò con riferimento ai processi che sono passati al vaglio del tribunale, di regola quelli di maggior rilievo, per i quali si pone con più intensità il problema di evitare un default dello Stato. La vera questione è che (in attesa della generale riforma del processo) andrebbe fatto funzionare meglio l’appello, che da sempre è il collo di bottiglia del sistema, al punto che da solo «brucia» il 48% della durata totale del processo.
Comunque sia, in base alla situazione obiettivamente data (anche per effetto del blocco Covid), a me sembra di poter concludere che la fretta e la voglia di tornare all’antico — senza possibilità di valutare in concreto il nuovo — sembrano basate su schemi ideologici precostituiti, piuttosto che su analisi concrete. Un buon motivo per dubitare della loro opportunità.