sabato 27 Luglio 2024
Sanità/Salute

Politica sanitaria e fase 2, perché serve adottare il «modello Veneto»

L’approccio “community based” ha fatto la differenza. Ecco come queste misure si sono tradotte anche in una maggiore protezione degli operatori sanitari

di Cristina Da Rold

La discrepanza fra Veneto e Lombardia quanto ad andamento dell’epidemia è oramai evidente, e da più parti si pubblicano considerazioni, tutto sommato al momento ancora da considerarsi ipotesi, tasselli di un puzzle ancora incompleto. E se mentre ci chiediamo che cosa non ha funzionato in Lombardia – domanda doverosa – ci interroghiamo seriamente su che cosa ha funzionato in Veneto e come possiamo scalare questo sistema?

“Non si tratta di riflessioni da accademici: qui c’è in gioco il nostro prossimo futuro, che dipende da come gestiremo, specie in Lombardia, la fase della riapertura. Epidemiologicamente, nella fase discendente della pandemia la Lombardia si potrebbe facilmente trovare nella medesima situazione in cui eravamo a febbraio, quando ancora il margine di manovra era più ampio.

A quel punto virare nella giusta direzione sarà fondamentale per evitare un nuovo aggravarsi della situazione.” A parlare è Stefania Salmaso, già direttore del Centro nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto superiore di Sanità e coautrice di un articolo che è uscito in preprint in questi giorni dal titolo “Proteggere i nostri operatori sanitari proteggendo le nostre comunità” che racconta come un approccio “community based” può avere fatto la differenza e come queste misure si sono tradotte anche in una maggiore protezione degli operatori sanitari.

Lombardia e Veneto a confronto

Le differenze nei numeri
Fatti salvi tutti i caveat che da settimane raccontiamo sul computo dei dati, dallo scoppio concomitante dei due focolai epidemici a Codogno e a Vo’ Euganeo, al 1 aprile 2020, gli operatori sanitari rappresentano il 14,3% di tutti i casi in Lombardia e il 4,4% dei casi in Veneto. In Lombardia, il tasso di positività tra gli operatori sanitari è 19 volte superiore rispetto a quello della popolazione generale (6.924 casi fra gli operatori contro i 362 fra la cittadinanza per 100mila persone), mentre in Veneto è 3,9 volte superiore (676 operatori contro 172 cittadini contagiati per 100.000 abitanti).

Nel complesso la Lombardia ha registrato in un mese e mezzo 44.733 casi di Covid-19 e 7.539 decessi; il Veneto rispettivamente 9.625 e 499. In in Lombardia si sono registrati 445 positivi per 100mila persone e in Veneto 196 per 100mila. I tassi di mortalità sono risultati addirittura 7,5 volte più alti in Lombardia che in Veneto (75 decessi su 100mila e 10 su 100mila, rispettivamente). Infine, in Lombardia, il 51,5% dei pazienti è stato ricoverato, fra cui un 5,2% in unità di terapia intensiva, mentre in Veneto, le cifre percentuali erano rispettivamente del 25,1% e 4,3%. Qui trovate lo studio di Vo’.

Cosa significa un approccio Community based riferito al Veneto. 
“Significa banalmente che all’inizio della pandemia in Veneto è stata adottata una sorveglianza attiva, cercando i casi sul territorio del primo focolaio senza aspettare che i positivi si presentassero dal medico o in ospedale alla comparsa dei primi sintomi. Il Veneto ha eseguito, in proporzione sulla sua popolazione, il doppio dei tamponi per l’accertamento di infezione della Lombardia, e addirittura un numero 2,7 volte maggiore nella prima settimana dell’epidemia.
Alcuni elementi della strategia veneta sembrano particolarmente importanti per rallentare la catena di contagio. Anzitutt o i test hanno riguardato, sia casi sintomatici che asintomatici; inoltre è partita subito un’ampia tracciatura dei contatti intorno a casi positivi, inclusa la famiglia allargata, contatti di lavoro. Un terzo elemento cruciale nella riduzione dei contagi degli operatori sanitari è stato l’isolamento domiciliaare dei casi positivi e dei sospetti, con monitoraggio telefonico giornaliero per valutare lo stato clinico del paziente.

In particolare per quanto riguarda la protezione degli operatori sanitari, si è cercato di ridurre al minimo i contatti con medici e altri operatori sanitari incoraggiando il rapporto telefonico. Sono stati inoltre previsti ospedali dedicati al Covid-19 per pazienti che non necessitavano più di cure in fase acuta e test frequenti (3 tamponi ogni 14 giorni) a operatori sanitari molto esposti”. Questi approccio è stato adottato anche da altre Regioni, ma la tempestività ha fatto la differenza. Certo anche in Veneto non tutto è stato perfetto al di là dei documenti formali, e non mancano le testimonianze di medici di medicina generale, potenzialmente esposti ma che hanno ricevuto un tampone molto tardi.

Queste due regioni avevano un piano per far fronte all’epidemia?
“Ci siamo basati su documenti disponibili e abbiamo individuato per il Veneto una serie di disposizioni che si configurano come un piano all’inizio dell’epidemia, mentre in Lombardia sono stati emanati una serie di provvedimenti difficili da rintracciare . Va detto che negli anni Duemila l’Italia aveva un piano nazionale per contrastare le pandemie , condiviso con le regioni, ma dopo le critiche alla gestione della pandemia influenzale del 2009 non è più stato tenuto aggiornato e a quanto pare nessuno lo ha utilizzato ora.”

Lombardia e Veneto: due sistemi sanitari diversi
A livello strutturale entrambe le regioni hanno modificato il loro assetto sanitario circa cinque anni fa. In Veneto la Legge Regionale n.19/2016 è stata creata la cosiddetta Azienda Zero che aveva l’obiettivo di togliere alle singole ASL il peso della gestione burocratica, accentrando quindi la programmazione territoriali delle 9 ASL, che a loro volta avevano visto un accorpamento dal momento che prima della riforma erano 21.
La Legge Regionale n.23/2015 lombarda invece ha anch’essa accorpato 15 ASL in 8 ARS (Agenzie di tutela della Salute) ma scegliendo un sistema su tre livelli, oltre ad avere accorpato le 15 Asl in 8 nuove Agenzie di tutela della salute (Ats), ha creato un sistema organizzativo su 3 livelli: c’è la Regione, ci sono le ATS come rami della regione e si suddividono a loro volta in 27 Aziende socio sanitarie territoriali “Asst” le vecchie Aziende Ospedaliere.

“In Lombardia ogni dipartimento di prevenzione ha un bacino di residenti medio di circa 1,2 milioni di persone, mentre in Veneto la popolazione media per dipartimento è circa di 500.000 residenti” spiega Salmaso. “Noi riteniamo che al di là delle disposizioni regionali la rete di Dipartimenti di prevenzione in Veneto abbia reagito in modo più efficace che in altre realtà e che saranno i Dipartimenti di Prevenzione di ogni regione che dovranno intercettare ed interrompere le catene di contagio dopo la fine dall’isolamento generalizzato”

Quindi praticamente il Veneto ha investito di più?
“Questo dato al momento non è facile da stimare, anche se sarebbe molto interessante averlo per fare ulteriori considerazioni. Non sappiamo esattamente ogni regione quanto investe in assistenza primaria. Ci sono analisi che tentano di inquadrare quanto si investe in prevenzione a livello regionale come questa ricerca pubblicata su Epidemiologia e Prevenzione nel 2016 (meno del 5% della spesa sanitaria in tutte le regioni) ma all’interno della dicitura “prevenzione” rientrano voci molto diverse, fra cui il settore della sicurezza alimentare e ambientale.
Non si tratta solo di investire di più, ma ragionare in termini di comunità, potenziando l’assistenza territoriale per intercettare i focolai laddove ancora non sono noti, ben prima che inizino le ospedalizzazioni.”