Non dubito
Non dubito della
buona fede con
cui il presidente
Mattarella ha
compiuto la scelta
d’imperio del
governo Draghi (“d em o c raz i a
dall ’alto”, l’ha chiamata Gustavo
Zagrebelsky), considerandolo
un male minore rispetto a elezioni
anticipate da svolgersi in piena
emergenza.
Suppongo anzi che il capo dello
Stato abbia sgradito il moto di
sollievo in cui si sono accomunati
i tanti parlamentari a rischio di
doversi cercare un altro mestiere
e i portavoce del padronato che
ormai da tempo vedono nel suffragio
universale un fastidioso ostacolo
ai loro auspici. Sintomatico
è l’uso smodato e mistificatorio
che si sta facendo della parola
“populismo”, in questi giorni,
per celebrarne la sconfitta.
Perfino il Pd si è beccato l’accusa
di populismo per il solo fatto di
aver riconfermato l’in te nz io ne
di prolungare l’alleanza
con il M5S. Se ne deduce
che si macchierebbe
di populismo chiunque
denunci il ripristino
del primato della tecnocrazia;
intesa, quest
’ultima (mai nominata
come tale) quale unico
efficace agente regolatore
del conflitto fra
blocchi d’interessi diversi,
che la politica si è
dimostrata incapace di
rappresentare.
Mi chiedo però se
Mattarella abbia valutato,
soppesando i pro e
i contro della soluzione
Draghi, anche l’effe tto
nefasto prodotto fra i cittadini
comuni dai clamorosi voltafaccia
in cui si sono esibiti troppi
protagonisti della nostra politica.
Lo si presenta come senso di
responsabilità, addirittura felice
resipiscenza, ma appare fin troppo
evidente che si tratta di faccia
tosta. Nessuno crede all’europei –
smo di facciata di un Salvini così
come all’improvvisa folgorazione
moderata, liberale e atlantista
di un Di Maio. Quanto al Pd, l’unica
cosa che si capisce è la sua
impossibilità a concepirsi altro
che partito ministeriale. Al pari
delle forze minori di centro, Berlusconi
in testa, fortunosamente
rientrate nel gioco.
I partiti ne sono usciti a pezzi,
chi più e chi meno afflitti da ulteriori
lacerazioni. Sottovalutare
gli effetti futuri di questa dissoluzione,
ben visibile nei rancori
che si manifestano all’in te rn o
dei loro gruppi dirigenti, a me
sembra pericoloso. Si potrebbe
obiettare che il trasformismo è
da sempre una caratteristica della
politica italiana. E che anche
di recente abbiamo assistito a
trasformazioni virtuose di personalità,
come Giuseppe Conte,
rivelatosi capace di assumere una
fisionomia diversa da quella
meramente subalterna assegnatagli
nel 2018 da M5S e Lega. Ma
resta il fatto che l’incoerenza al
potere è diventata la cifra prevalente
della nostra democrazia
malata, acuita al massimo grado
nel governo dell’emergenza.
Davvero improponibile è il
paragone con i governi di unità
nazionale del dopoguerra, nei
quali coabitavano partiti politici
protesi alla ricostruzione del
Paese dopo aver combattuto insieme,
nel Cln, il regime fascista:
un profilo comune, sociale e culturale,
pur nelle grandi
diversità che presto
si manifesteranno,
oggi del tutto assente.
Non a caso nella storia
d’Italia, i governi di unità
nazionale hanno
sempre avuto vita breve
(a differenza della
grosse koalition tede –
sca) e sono stati caratterizzati
da scarsa capacità
riformatrice, in
quanto paralizzati dai
veti reciproci. Perfino
la scelta dei sottosegretari,
che ha messo
in imbarazzo anche i
più devoti cultori dei
superpoteri di Draghi,
lascia intendere che questo governo
non farà eccezione. Sicché
riesce davvero temerario illudersi
che il banchiere trasformatosi
in politico possa diventare il riordinatore
di un sistema fondato
sull ’alternanza democratica fra
una destra e una sinistra di matrice
europeista.
Gli stessi moti di esultanza
che hanno accompagnato la nascita
di questo governo segnalano
che non si tratta di un’innova –
zione bensì di una restaurazione.
Esso non prefigura, cioè, la formazione
di una nuova classe dirigente
democratica, bensì il ritrovato
protagonismo di funzionari
e notabili che nel passato recente
pretesero e ottennero, solo
per fare un esempio, l’ins erimento
dell’obbligo di pareggio
di bilancio nella nostra Costituzione.
Sia detto per inciso: il relatore
di quella riforma votata a
larga maggioranza nel 2012 si
chiamava Giancarlo Giorgetti,
che poi non ebbe niente da ridire
quando la Lega due anni dopo si
scatenò in una campagna elettorale
al grido “Basta euro”. Analoghe
contraddizioni hanno costellato
il passaggio del M5S dal
fautore della Brexit, Nigel Farage,
al voto per Ursula von der Leyen;
e da Salvini a Zingaretti. Il
rifiuto di riconoscere validità alla
distinzione fra destra e sinistra
è la causa principale della sua deflagrazione.
Resta il fatto, però,
che pur con tutte le accuse di dilettantismo
che il governo Conte
bis si è tirato addosso, i suoi ministri
hanno svolto un ruolo determinante
nella svolta impressa
all’Unione europea nel luglio
del 2020. Un merito che in futuro
nessuno potrà togliergli.