sabato 27 Luglio 2024
Articoli 2021

Quarta guerra di Gaza

Da dove inizio? È la domanda che mi pongo da quando ho in mente di scrivere una riflessione sulla quarta guerra di Gaza.

Penso che sia giusto iniziare dalle vittime: dall’inizio delle ostilità tra Israele e Hamas, il 10 maggio, almeno 219 palestinesi, tra cui 63 bambini, sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza, secondo i dati del ministero della salute aggiornati al tardo pomeriggio del 19 maggio. I lanci di razzi dalla Striscia verso Israele hanno ucciso 12 persone, tra cui due bambini.
Il dato evidente è la sproporzionalità delle morti, ma questo è solo un dato matematico. Perché il dolore del “singolo dato” è identico sia da una parte che dall’altra. Il dolore della morte e della sofferenza non ha distinzioni di nazionalità.

Poi arriva anche un altro pensiero che scuote queste mie tranquille giornate. Fino a sedici mesi fa, la notizia avrebbe campeggiato sui siti internet come boom della cronaca internazionale. Ora invece la guerra tra Israele e Palestina fatica a trovare spazio. E io ammetto la mia indifferente colpa: sono più interessato alla dichiarazione di Anthony Fauci che in conferenza stampa ha dichiarato: “non ci aspettiamo alcuna nuova ondata del virus in autunno”.
E in questa scelta di privilegiare Fauci rispetto all’inferno in Terra Santa c’è tutto il segno del momento che viviamo: l’insidia non sta più nel terrorismo ma in qualcosa di ormai molto più vicino e tangibile. Questo virus che minaccia la nostra salute e la nostra economia. E ne siamo ossessionati perché la combattiamo ogni giorno, ne parliamo ossessivamente in qualunque sede, la monitoriamo ogni sera con grafici e cifre. E allora perché dovrebbe far notizia i missili che cadono su Gerusalemme?
Come scrive Stefano Massini in un bellissimo articolo[1]: “Non so quando usciremo davvero dalla cosiddetta fase critica della pandemia, ma so che la riprova di quel passaggio si avrà quando ricominceremo ad ammettere nelle frequenze del nostro radar anche la sofferenza di tutto il resto del mondo, oltre alla salvaguardia del proprio equilibrio (biologico, economico, sociale e psicologico). Fino ad allora, fra Gerusalemme in fiamme e l’exploit di un virologo, vince il secondo. E vince a mani basse”.

Provo a condividere alcune riflessioni che ho letto.

Questa volta può essere tutto diverso?
La serie di eventi e la violenza che si sono propagate in tutta la Palestina e in Israele sembrano un altro ciclo delle stesse dinamiche a cui assistiamo da decenni: la popolazione araba resiste al potente occupante israeliano che usa una forza militare sproporzionata a Gaza e a Gerusalemme, causando centinaia di morti e feriti.
Ma ci sono quattro elementi che rendono questa quarta guerra differente.

Il primo è che Israele e la parola apartheid ora sono regolarmente citati insieme nei dibattiti nella regione e nel mondo. Il secondo riguarda due tendenze internazionali in crescita: le manifestazioni popolari a sostegno dei diritti dei palestinesi e il supporto al movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds). Il terzo fattore consiste nel fatto che i palestinesi sono comparsi nei mezzi d’informazione globali e sui social network a raccontare la loro storia. La quarta dinamica è che i tre elementi citati si sono combinati e hanno imposto un dibattito pubblico globale su come i metodi colonizzatori usati oggi da Israele siano stati portati avanti dal movimento sionista per più di un secolo.
Tra il 1915 e il 1947 i leader sionisti riuscirono a convincere la potenza mondiale britannica a concedergli una patria destinata a diventare stato in una Palestina araba al 93 per cento. Dal 1948 Israele ha mobilitato la potenza globale statunitense perché non mettesse in discussione la sua brutalità predatoria contro la Palestina.
Mai prima d’ora il congresso statunitense aveva chiesto in modo così chiaro di considerare israeliani e palestinesi sullo stesso piano. E mai prima d’ora i mezzi d’informazione internazionali avevano dato tanto spazio alle voci di chi sostiene che, per raggiunger e la pace, si deve porre rimedio alle ingiustizie coloniali del passato.

Ma ogni palestinese e ogni osservatore ragionevole sa che fa parte di una storia centenaria, in cui un popolo occupa ed espelle, frammenta, divide e schiaccia, mentre l’altro rifiuta di cedere la sua identità e la sua patria, e per questo viene costantemente attaccato.

Ma a mio avviso c’è anche una responsabilità palestinese.
Il regime di Hamas, bravissimo a costruire un esercito, non ha investito nella costruzione di rifugi per i civili. E dipende dagli aiuti delle organizzazioni internazionali, guidate dall’Agenzia dell’Onu che si occupa dei profughi palestinesi (Unrwa), per offrire una rete di sicurezza e delle forniture basilari agli abitanti. Hamas sa che il peso della ricostruzione ricadrà sui paesi stranieri e sull’odiato governo della Cisgiordania.
È difficile credere che i leader di Hamas non abbiano considerato la possibilità che Israele avrebbe risposto con colpi più potenti e letali, che sarebbero costati la vita a molti civili. È ragionevole pensare che Hamas si aspettasse la risposta di Israele con la distruzione d’infrastrutture civili e non solo militari.
Hamas ha avviato una campagna militare senza avere gli strumenti per difendere i suoi cittadini. Sta usando le sue capacità militari e lo shock della comunità internazionale di frante alla distruzione per rafforzare il suo status di rappresentane politico di tutto il popolo palestinese. E Israele continua a spianargli la strada, sia isolando la Striscia dal resto del paese sia con la sua politica militare sanguinosa e sfrenata.

I danni causati da questa “operazione” con la quale Netanyahu afferma di voler andare avanti fino a quando “il suo obiettivo sarà raggiunto, riportare pace e sicurezza a voi, cittadini d’Israele” diventano ogni minuto più gravi e irreparabili.
Personalmente penso che l’unica possibilità di soluzione per il Medio Oriente sia il confederalismo democratico teorizzato da Abdullah Ocalan. Sono però anche convinto che le condizioni per realizzarlo in Israele e Palestina siano pressoché inesistenti, perché nessuno delle due parti non solo non crede in una prospettiva del genere, ma in buona sostanza fa consapevolmente o inconsapevolmente di tutto perché una convivenza pacifica nel reciproco rispetto non si possa realizzare né ora, né mai.
E con questi presupposti, qualsiasi situazione di conflitto è irrisolvibile.

Noi e Loro (come canta Roger Waters)
Siamo stati tutti noi che non ci siamo mobilitati con maggiore forza e determinazione per impedire che il popolo palestinese restasse abbandonato a sé stesso a una leadership inconsistente e priva di credibilità in Cisgiordania, e a Gaza a una impostazione religiosa di cui non condivido una singola parola o azione (e che pure, essendo democraticamente eletta, deve essere riconosciuta come legittimo interlocutore).

Siamo davanti al rischio concreto che sia negato per sempre il diritto del popolo palestinese, da troppo tempo sotto occupazione militare, ad avere un suo Stato.

Serve una reazione più forte dell’Europa.
“Due popoli due stati” non è mai stato così tanto distante dalla realtà come oggi. Bisogna riprendere il bandolo di una crisi che è stata dimenticata negli ultimi anni.
Si parla di Stato Palestinese ma da parte di Israele procede la colonizzazione dei territori dove questo Stato dovrebbe essere costruito. L’annessione di Gerusalemme da parte del governo israeliano è stato un passo di un’enorme portata simbolica, accettata dagli Usa e dall’Europa e quindi di fatto ratificata, mentre le risoluzioni Onu sono trattate come carta straccia. O l’Occidente è in grado di restituire verità al tema dei due Stati – smontando gli insediamenti, revocando l’annessione di Gerusalemme – oppure parliamo d’altro, ovvero come si garantiscono i diritti dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione di Israele e che, giustamente, descrivono la loro condizione come quella dell’apartheid.

Sembra come ci sia un disegno preciso del governo israeliano per far saltare ogni ipotesi di compromesso, occorre una missione di pace a difesa dei civili e di confini stabiliti dall’Onu, un allargamento di Unifil (la missione in Libano).

In passato in medio oriente abbiamo contato quando diamo stati artefici del confronto, non quando abbiamo rotto una politica di equivicinanza.

 

[1] “Se Gerusalemme brucia e noi ascoltiamo il virologo” Robinson del 15/05/2021