sabato 27 Luglio 2024
Diritti

Luciana racconta la sua guerra «Io bambina terrorizzata dalle SS»

Sono della classe 1938. Sono convinta che la vita che ci è stata data, in questo periodo storico, è da fissare, perché nulla vada dimenticato e le nuove generazioni, più fortunate di noi, si rendano conto di quello che la guerra e i conflitti comportino per le persone. Mio padre era arruolato nella marina militare. Aveva fatto questa scelta, perché nato in una famiglia napoletana, molto povera, voleva trovare una via d’uscita a questa misera situazione. Suo padre, operaio nell’industria calzaturiera, si era infatti ammalato gravemente e a trentasette anni era rimasto senza lavoro. La famiglia, molto numerosa, che viveva in un sottoscala di quattro metri per tre, non aveva di che vivere. La madre, si era improvvisata portiera del palazzo, ma forse le entrate erano minime. Dunque, a diciotto anni, ha pensato di entrare in marina. Ha fatto una rapida carriera, bloccata solo dal titolo di istruzione (V elementare) ed è diventato in breve capo cannoniere. Sparava il primo cannone di ammiraglie come il Pola (e il Victoria). E’ arrivato a Pesaro (al largo) ed ha conosciuto mia madre, una ragazza del luogo, che era andata a visitare con le amiche, l’incrociatore. E’ stato amore a prima vista. La mamma ha sempre seguito il marito, nei grandi porti dove le navi stazionavano (Napoli, Taranto, La Spezia e infine Venezia). Io, fino a sei anni, ho sempre seguito i miei genitori, quindi ho vissuto in varie città. Naturalmente, dove attraccavano i grandi incrociatori, ci sono stati i primo bombardamenti e al suono delle sirene, correvamo nei rifugi. Una volta, a La Spezia, mentre si correva sotto la galleria del treno, che era una immensa grotta sotto la città, in braccio ad un marinaio, ho perso di vista mia madre. Ancora ricordo il terrore che ho provato. Con l’avanzare della guerra, è stato più prudente tornare a Pesaro. Poi il rifugio nelle campagne, nella zona di Roncaglia, dove i miei zii avevano una vigna ed un podere. Lassù non c’era più pace. Vedevamo dall’alto arrivare gli aerei su Pesaro, ma questo era nulla. Vicino a casa nostra c’era una postazione militare tedesca delle SS. I militari, armati fino ai denti, entravano con prepotenza in casa nelle prime ore del giorno, e reclutavano tutte le giovani donne che dovevano andare a lavorare nella loro postazione, che in quella zona, era tra la chiesa e il cimitero. Facevano spesso anche retate dei pochi uomini che erano rimasti a casa. I residenti avevano trovato un espediente: poiché si accorgevano quando partivano, alcuni suonavano le campane e tutti gli uomini si nascondevano, dove potevano. Poi è arrivato il passaggio del fronte. Avevano scavato in una ripida collina, vicino al lavatoio c’era in un canalone fra due promontori, tre gallerie nel tufo. Erano collegate fra loro e tutti, coloro che abitavano a Roncaglia, vi trovarono rifugio. Ormai i tedeschi erano in fuga e, per mimetizzarsi, camminavano tra i canneti. Hanno vestito da donna un mio cugino che ormai sedicenne poteva essere portato via. Siamo stati nel rifugio tre giorni e tre notti. Ad ogni bomba un po’ di tufo ci cadeva addosso. Una porta di canne chiudeva l’entrata del tunnel. Ricordo che ogni tanto, qualche soldato tedesco veniva a fare un sopralluogo e passava tra le persone, quasi volesse portar via qualcuno. Finita la guerra siamo tornate a Pesaro. Le nostre case erano state sventrate dai ladri che avevano portato via tutto quello che potevano. Ricordo la cantina, in cui avevamo riposto le nostre cose, piene di piatti e bicchieri rotti. Quello che non avevano potuto rubare era stato, con spregio, distrutto. Non avevamo soldi, perché di mio padre non si sapeva nulla.