La mafia esiste
Venerdì 19 novembre sono
state depositate le motivazioni della sentenza con la quale i giudici
della Corte d’Appello di Palermo hanno condannato, lo scorso 29
giugno, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri a sette anni di
reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Le motivazioni depositate
risultano sconcertanti a causa del presunto ruolo avuto dal senatore
Dell’Utri nel rapporto di mediazione e collegamento tra la mafia e
l’allora imprenditore Silvio Berlusconi. Motivazioni che però non
sorprendono quanti hanno seguito l’evolversi dell’intreccio
mafia-politica in questi ultimi anni.
La sentenza afferma che
Berlusconi pagava Cosa nostra e taceva. Pagava attraverso Marcello
Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, che era in stretto contatto con
gli esponenti di primo piano della mafia.
I giudici scrivono: “Vi
è un’indiretta conferma del fatto che anche Silvio Berlusconi in
quegli anni lontani(stiamo
parlando del periodo tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni
’80), pur di risolvere quel tipo di problemi, non esitava a
ricorrere alle amicizie “particolari” dell’amico siciliano
(Dell’Utri, ndr) che gli garantiva la possibilità di fronteggiare le
ricorrenti richieste criminali riacquistando la serenità perduta ad
un costo per lui tollerabile in termini economici”.
Per i giudici Dell’Utri
“ha apportato un consapevole e valido contributo al
consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso“. In
particolare, l’imputato avrebbe consentito ai boss di “agganciare”
per molti anni Berlusconi, “una delle più promettenti realtà
imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe
diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico“.
La vicenda dei pagamenti
da parte del Cavaliere si intreccia, secondo i giudici, con altri
versamenti per la “sistemazione” della Fininvest che
all’inizio degli anni ’80 aveva cominciato a gestire alcune emittenti
televisive in Sicilia.
Trovano conferme “le
dichiarazioni rese da Francesco Di Carlo secondo cui l’imputato
Dell’Utri si occupò di procurare all’imprenditore milanese la
“protezione” attraverso l’assunzione di Mangano con
l’avallo e l’intervento diretto dei massimi esponenti di Cosa nostra
dell’epoca“.
I giudici credono fondato
soprattutto il racconto di Di Carlo su una riunione svoltasi a Milano
nel 1975 “negli uffici di Berlusconi” alla quale
parteciparono, oltre a Dell’Utri, anche i boss Gaetano Cinà,
Girolamo Teresi e Stefano Bontade che all’epoca era “uno dei più
importanti capimafia”.
Interessante ciò che
scrive Giuseppe Di Lello1:
“La falsa propaganda berlusconiana di un governo che avrebbe
combattuto il crimine organizzato più di tutti gli altri nella
storia si infrange in queste sentenze. Anche perché a fronte degli
arresti di latitanti e dei sequestri di beni illeciti, si vedono le
mafie invadere letteralmente la penisola.
Come si può credere
che si voglia contrastare la mafia quando la politica del “fare”
si sostanzia di favori alla criminalità negli appalti dei lavori
pubblici, nel ciclo dei rifiuti, nella devastazione dell’ambiente,
nel riciclaggio? Questa politica significa affari illeciti e
collusioni con pezzi importanti delle istituzioni al riparo da una
accorta opera di protezione del governo “amico”. E’ un
indebolimento degli organi di controllo con scudi ed evasione
fiscale, sanatorie, accorciamento delle prescrizione e, soprattutto,
con una costante delegittimazione della magistratura ed una perenne
minaccia di metterla all’angolo etichettandone alcuni settori
addirittura come una associazione a delinquere. Sempre pronti a
lanciare un segnale forte quando ce n’è bisogno, come nel caso
dell’ex sottosegretario Cosentino e sempre disponibili a gridare alla
diffamazione quando qualcuno si permette di dire che i gruppi
criminali si sono impadroniti delle regioni dove il loro comando è
egemonico”.
Un’ultima osservazione su
questa vicenda. Sulle motivazioni della condanna a Dell’Utri il TG1 e
il TG5 hanno optato per il silenzio.
Se posso comprendere le
motivazioni “padronali” di Mediaset, faccio invece difficoltà a
comprendere la sudditanza della Rai. La maggiore testata del servizio
pubblico si è ormai ridotta ad arma contundente contro l’opposizione
e mezzo di propaganda per il premier e la maggioranza.
1Articolo
pubblicato da “Il Manifesto” il 20 novembre 2010