sabato 27 Luglio 2024
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L’opposizione integrale alla guerra

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Sul perché condanniamo
l’intervento, non firmiamo appelli, cerchiamo di capire e lavoriamo
per fare della Marcia Perugia-Assisi un’occasione di crescita
nonviolenta per tutto il movimento pacifista.

Difendere le vittime
inermi è doveroso. Quando qualcuno interviene per tutelare i diritti
umani e salvare una vita, è una buona notizia. Da quando il
samaritano ha soccorso il poveretto incappato nei briganti sulla
strada di Gerico, è sempre stato così.
Era dovere della comunità
internazionale mobilitarsi per impedire che a Bengasi potesse
avvenire un massacro (nel 1996 l’Europa si macchiò di “omissione
di soccorso” quando non fece nulla per impedire il genocidio a
Srebrenica).
L’obiettivo delle due
risoluzioni dell’Onu (n. 1970 e 1973) sulla crisi libica è quello
di proteggere i civili, gli insediamenti urbani e garantire
assistenza umanitaria. L’uso della forza viene invocato per limitare
i danni che già sono in corso sul campo, affermando il chiaro
rifiuto dell’opzione di occupazione militare straniera, la priorità
del cessate il fuoco e della soluzione politica, il rafforzamento
dell’embargo militare e commerciale, il riconoscimento del ruolo
prioritario della Unione Africana, della Lega Araba, della Conferenza
Islamica.
Ci sono però due cattive
notizie. La prima è il ritardo spaventoso (e l’ambiguità) con cui
si è mossa la diplomazia degli stati, e la seconda è che l’Onu non
dispone di una forza di polizia internazionale permanente ma deve
affidarsi, di volta in volta, agli eserciti degli stati membri
(articoli 43-49 della Carta della Nazioni Unite, in questo caso
Francia, Inghilterra, Stati Uniti).
Quando la parola passa
dalla diplomazia alle armi, succede che le operazioni militari si
trasformano subito in guerra. E’ quello che sta accadendo in Libia.
Gli strumenti utilizzati (bombardieri, caccia, tornado, missili,
incrociatori, portaerei, sommergibili, ecc.) sono quelli tradizionali
della guerra, gli unici disponibili, pronti, efficienti. Come nei
Balcani, come in Iraq, come in Afganistan, viene messa in campo solo
l’opzione militare, l’unica che è stata adeguatamente preparata e
finanziata. Una cosa è certa: non sarà con un’altra guerra che la
democrazia potrà affermarsi nel mondo arabo.

Appelli che cadono nel
vuoto

Subito dopo l’annuncio del
primo raid aereo, hanno iniziato a circolare in “rete” gli
appelli pacifisti. Ci sono quelli “senza se e senza ma” che
dicono: “non ci può essere guerra in nome dei diritti umani”; e
quelli “realisti” che dicono: “l’uso della forza serve ad
impedire ulteriori massacri”.
Noi non firmiamo appelli
che non contemplino una precedente opzione per la nonviolenza
costruttiva, né convochiamo mobilitazioni che si limitino a proteste
e condanne di ciò che è già avvenuto. Non basta mettere a verbale
il nostro “no” alla guerra. Certo, meglio che niente, ma bisogna
aggiungere una parola in più: quando la guerra inizia nessuno riesce
a fermarla; bisogna prevenirla una guerra, affinché non avvenga. Lo
si può fare solo non collaborando in nessun modo alla sua
preparazione.
Quando la prima bomba è
stata sganciata, ormai lo sappiamo bene, a nulla serve dire “basta”,
essa cadrà e molte altre ne seguiranno. La guerra, una volta
accettata, conduce a tali delitti e tali stragi che è assurdo
pensare di farla e contenerla. Come in un terremoto, l’unica
possibilità – se non si sono adottate serie misure antisismiche –
è il “si salvi chi può”. Poi, i sopravvissuti dovranno pensare
alla prevenzione per rendere innocuo il terremoto successivo. Ma
troppo spesso capita che, passata la prima paura, se ne dimenticano e
anche il prossimo terremoto li coglierà impreparati.
Il limite di molti appelli
è quello di rivolgersi ai governi e alle istituzioni per chiedere a
loro di fare la pace. C’è un’inscindibile correlazione fra mezzi
e fini: come possiamo aspettarci scelte di pace da governi (compreso
quello italiano) che mantengono gli eserciti e le loro strutture, che
finanziano missioni militari, che aumentano le spese belliche, che
accettano il traffico legale e illegale di armi? Chiediamo ai governi
di ridurre le spese militari, e regolarmente, finanziaria dopo
finanziaria, queste spese aumentano esponenzialmente. Insistere in
quest’errore di ingenuità diventa una colpa. La pace non verrà
dai governi che utilizzano lo strumento militare, ma potrà venire
solo dai popoli che rifiuteranno di collaborare con essi.
E’ a noi stessi, dunque,
che dobbiamo rivolgere gli appelli per la pace.

Distinguere la violenza
dalla forza

Per uscire dall’apparente
contraddizione fra chi è sempre, e comunque, contro la guerra e chi
è favorevole, a volte, ad azioni anche armate, bisogna saper vedere
la differenza che c’è tra la violenza e la forza; tra la polizia
internazionale e l’esercito. Gli amici della nonviolenza sono sempre
stati favorevoli al Diritto e alla Polizia, due istituzioni che
servono a garantire i deboli dai soprusi dei violenti. E’ per
questo che da anni sono impegnati, a partire dalle iniziative europee
di Alexander Langer, per lo studio, la ricerca, la sperimentazione e
l’istituzione di Corpi Civili di Pace. Gli amici della nonviolenza
chiedono la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno
finanziario alla creazione di una polizia internazionale, anche
armata, che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per
disarmare l’aggressore e ristabilire pace e diritto.
Contemporaneamente al sostegno di questi progetti, gli amici della
nonviolenza sono contro la preparazione della guerra (qualsiasi
guerra: di attacco, di difesa, umanitaria, chirurgica o preventiva),
contro il commercio delle armi, contro gli eserciti nazionali, contro
i bilanci militari e lo fanno anche con le varie forme di obiezione
di coscienza. La proposta politica dei nonviolenti è quella di uno
stato che rinunci al proprio esercito nazionale, e si impegni a
fornire mezzi, finanziamenti e personale per la polizia
internazionale di cui si dovrà dotare l’Onu.
La diplomazia la fanno i
governi, ma la nonviolenza la fanno i popoli.

Le responsabilità di
Gheddafi e dell’Europa

Dobbiamo perciò
perseguire con sempre maggiore decisione la strada della distanza da
qualsiasi regime che violi i diritti umani e democratici, denunciando
con forza le responsabilità dei nostri governi e del loro servilismo
davanti a un personaggio come Gheddafi (e al suo gas e petrolio) che
per oltre 40 anni ha occupato la scena con politiche che hanno
sponsorizzato ogni tipo di violazione di qualsivoglia diritto, ha
nutrito le guerre e le destabilizzazioni che hanno martoriato un buon
numero di paesi africani dal Ciad, al Niger, al Burkina Faso, alle
sanguinarie guerre di Liberia, Sierra Leone e del Darfur, finanziando
le milizie armate. I mercenari al soldo di Gheddafi sono il frutto
delle diaspore di oltre 40 anni di destabilizzazione, sono persone
che non hanno nulla da perdere. Lo sbocco per tanti giovani del
continente africano, ovvero l’emigrazione, è stata messo dall’Europa
sotto la custodia interessata di Gheddafi e della sua polizia che
taglieggia, stupra, ricatta, vende e rivende i poveracci che
speravano di trovare una via di salvezza al di là del Mediterraneo.
Sono migliaia e migliaia i profughi dimenticati del Bangladesh che
fuggono dalla Libia verso la Tunisia, nella speranza di un viaggio
della disperazione verso casa.
Per questi disperati i
governi europei non si sono mossi. Così come è passata del tutto
inosservata la feroce repressione da
parte delle forze armate saudite del movimento che chiedeva libertà
e democrazia nel Bahrain (arcipelago del Golfo persico fra l’Arabia
Saudita e il Qatar).

Per la pace e la
fratellanza fra i popoli

Agitarsi, lamentarsi,
angosciarsi, non serve. La prima risposta, immediata, che possiamo
dare è quella di offrire soccorso concreto alle vittime, e poi di un
rafforzato impegno per sostenere la nonviolenza organizzata. Fra sei
mesi si svolgerà la Marcia Perugia-Assisi, nel cinquantesimo
anniversario della prima edizione, quella pensata ed organizzata da
Aldo Capitini. All’indomani della Marcia del 24 settembre 1961 lo
stesso Capitini volle dare vita al “Movimento Nonviolento per la
pace”, per avere a disposizione uno strumento utile al
proseguimento delle istanze emerse dalla Marcia stessa e al lavoro
“per l’esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni
settore della vita sociale, al livello locale, nazionale e
internazionale”. Al primo punto del programma del Movimento,
Capitini indicò “l’opposizione integrale alla guerra”. Dopo
cinquant’anni il cammino deve ripassare da lì. Per questo abbiamo
assunto l’impegno, come Movimento Nonviolento, di promuovere questa
Marcia, che deve essere l’occasione per “mostrare che la
nonviolenza è attiva e in avanti, è critica dei mali esistenti,
tende a suscitare larghe solidarietà e decise noncollaborazioni, è
chiara e razionale nel disegnare le linee di ciò che si deve fare
nell’attuale difficile momento”. E poi “pronto, dopo la Marcia, a
lavorare ad un Movimento nonviolento per la pace”. Sono parole di
Capitini di straordinaria attualità, pronunciate nel 1961 (mentre la
guerra infiammava il Vietnam e il Congo), valide per il 2011 (mentre
la guerra infiamma l’Afganistan e la Libia).
L’appuntamento è per il
prossimo 25 settembre alla Marcia Perugia-Assisi per la pace e la
fratellanza fra i popoli. Vogliamo che sia “un’assemblea
itinerante”, il momento conclusivo di una discussione/mobilitazione
che avviamo da subito. Un passo che ciascuno può fare contro la
guerra e per la nonviolenza.

Movimento Nonviolento
www.nonviolenti.org

Verona, 21 marzo 2011

Movimento Nonviolento
Via Spagna, 8
37123 Verona (Italy)

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Fax. 045 8009212

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