martedì 22 Ottobre 2024
Libri

La conversione ecologica

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Con l’espressione
“conversione ecologica”, mutuata da Alex Langer, Guido Viale fa
riferimento al cambiamento personale dello stile di vita, dei
consumi, del nostro rapporto con l’ambiente.

Qui il termine
“conversione” chiama in causa il profondo cambiamento nella
cultura e nei comportamenti delle persone.
Questo è il primo
ingrediente: cambiare. E’ qualcosa che possiamo fare e che, in
effetti, molti stanno facendo (es. acqua del rubinetto anziché in
bottiglia, meno automobile e più treno o bici, e così via). Ma è
qualcosa che è rimesso a noi. Consapevoli dei disastro ambientale a
cui stiamo conducendo il pianeta terra, molte persone cambino modo
di vivere.

Per invitare ad acquistare
e a leggere questo libro (edizioni NdA) riporto l’articolo che Guido Viale ha
scritto per il quotidiano “Il Manifesto” il 17 agosto. I temi che Viale tratta
in questo libro sono chiaramente approfonditi nel libro.

Gli alti e bassi, ma
sostanzialmente bassi, dei cosiddetti mercati, ci fanno capire che
nei prossimi anni, e per molto tempo ancora, non ci sarà alcune
«crescita»: né in Italia (dove la manovra ha messo una pietra
tombale su qualsiasi velleità di rilancio economico), né in Europa,
Germania compresa: che sconterà presto il disastro a cui sta
condannando metà dei suoi partner commerciali.

Meno che mai negli Stati
Uniti; di conseguenza soffrirà anche l’economia cinese, dove
sostituire la domanda estera con quella interna non è così facile.
Nemmeno il Brasile se la passerà più molto bene, mentre l’economia
giapponese è scomparsa dai radar.

In Italia, e in molti
altri paesi senza «crescita», il pareggio di bilancio diventerà
irraggiungibile: anche ridurre la spesa pubblica non basta per
colmare i deficit.

Così gli interessi si
accumulano, anno dopo anno, e il debito cresce, facendo aumentare a
sua volta i tassi, e con essi il deficit. Anche se prescritto dalla
Costituzione (con una norma che seppellisce tutto il pensiero
economico originale del Novecento) il pareggio di bilancio diventa
una chimera.

Per anni i titoli di Stato
avevano offerto ai cosiddetti risparmiatori – cittadini che avevano
un avanzo di reddito a disposizione – una specie di cassaforte dove
mettere al sicuro il loro denaro. Ma da tempo, e soprattutto con la
liberalizzazione dei mercati finanziari, quei titoli, ormai nelle
mani di grandi operatori internazionali (compresi quelli che oggi
gestiscono i fondi dei risparmiatori), sono stati trasformati in
assets su cui lucrare, giorno per giorno, in base a variazioni dei
rendimenti che chi quei titoli li ha emessi non può più
controllare. Non è vero, come ci raccontano, che la spesa pubblica
supera le entrate fiscali: in Italia non lo fa da tempo. Sono gli
interessi accumulati ad aver portato il bilancio fuori controllo: è
il meccanismo tipico dell’usura (quello dei famigerati cravattari); a
cui gli Stati di quasi tutto il mondo si sono sottomessi: non per
salvare se stessi, ma le banche e i fondi che detengono i loro
titoli.

Tuttavia la crisi
finanziaria non è che un risvolto di un meccanismo economico, quello
dello sviluppo – che è poi l’accumulazione del capitale – che si è
inceppato; perché è anch’esso a sua volta un risvolto della crisi
ambientale: il pianeta Terra non è più in grado di sostenere con le
sue risorse gli attuali flussi della produzione; e meno che mai i
flussi di scarti e residui – a partire dalle emissioni che alterano
il clima – che accompagnano inevitabilmente uno sviluppo guidato dal
profitto. «L’età della pietra – diceva lo sceicco Yamani, già
ministro del petrolio dell’Arabia Saudita – non è terminata per
mancanza di pietre. Nemmeno l’era del petrolio terminerà per
l’esaurimento del petrolio». Non lo farà, anche se le riserve
tradizionali di petrolio sono agli sgoccioli: finirà perché il
petrolio, e gli altri idrocarburi, saranno sostituiti da fonti
rinnovabili ed efficienza energetica; oppure perché le loro
emissioni avranno provocato disastri tali da rendere il pianeta
inagibile e ogni ulteriore estrazione di idrocarburi impossibile o
superflua.

Con il procedere della
crisi, l’esito ineluttabile di uno Stato preso nella spirale di un
debito insanabile come quello italiano è ciò che tutti dicono di
voler evitare, ma che nessuno vuole prepararsi ad affrontare: il
fallimento (default). Il problema non è il se, ma è solo il quando;
e chi sarà a subirlo e chi a imporlo; e in che modo gestirlo. Il
dibattito politico, se ci fosse, dovrebbe vertere su questo. Invece
tutti parlano di rilanciare una crescita che non tornerà più; o
che, se anche tornasse, sarà talmente stentata da non poter
interrompere quella spirale infernale. Mentre si parla di “crescita”
(ma di che cosa? dei saldi contabili per fare fronte al debito)
qualcuno, anzi molti, si affrettano ad arraffare tutto, prima che non
ci sia più niente da prendere. Proprio come i deprecati protagonisti
delle rivolte inglesi; che sono al tempo stesso il prodotto di quel
saccheggio e della cultura che la civiltà dei consumi e la
pubblicità promuovono ogni giorno. Ma là non si tratta di rubare
uno smartphone o un paio di sniker, ma di privatizzazioni, di questi
tempi vere e proprie svendite; e dopo le pessime prove – in termini
di tariffe e di efficienza – di tutte le privatizzazioni realizzate
negli ultimi anni. E dopo che l’Italia, ma anche Berlino, ma anche
Parigi, ma anche Bolivia ed Equador, si sono pronunciati contro le
privatizzazioni: non solo dell’acqua, ma di tutti i servizi pubblici
e i beni comuni. Ma la democrazia è da tempo incompatibile con le
esigenze dei mercati. Oggi più che mai. Poi tocca alle pensioni
(quelle dei poveri), ai salari, al welfare, alla sanità, alla scuola
all’occupazione, al posto fisso, alle finanze dei Comuni: gli unici
enti che sono, o potrebbero essere, vicini ai governati. Ovviamente è
un saccheggio pericoloso: in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in
Medio Oriente – per non parlare dell’Islanda: infatti nessuno ne
parla perché la strada del default è stata imboccata per scelta; e
senza grandi danni, se non per i banchieri finiti in galera – domani
in Italia, lavoratori e cittadini sfruttati e taglieggiati potrebbero
ribellarsi. E non è detto che lo facciano in forme gentili. Londra
insegna.

Per fare fronte a questa
eventualità – scrivono i corifei del saccheggio di Stato – ci vuole
una vera leadership. Quella attuale non è all’altezza: tanto è vero
che quella italiana – ma non solo quella – è stata commissariata. Ma
anche quella europea, che ne ha assunto la tutela, lascia a
desiderare. E nemmeno Obama naviga in buone acque. Mancano le idee e
mancano gli uomini, scrive sul Corriere della Sera un alfiere del
liberismo, Alberto Alesina, subito rincalzato dal suo gemello,
Francesco Giavazzi, che solo tre giorni prima si era invece
accontentato – su input del suo direttore – dell’«inventiva
imprenditoriale» di Berlusconi. Ma di idee intanto non ne tirano
fuori nemmeno una, se non la solita solfa: privatizzazioni,
liberalizzazioni, tagli alla politica e alla spesa pubblica
(continuano a pensare che la “crescita” sia una molla che
scatta da sé); e di come e dove farle nascere non parlano nemmeno
(non sarà certo la riforma Gelmini a produrre nuove idee; nemmeno
quei due, che pure la esaltano, osano sostenerlo). In queste
condizioni la leadership tanto invocata ha sempre di più l’aspetto
di un “Uomo della Provvidenza”. Una débacle più sonora
del pensiero unico liberista, che ha dominato un trentennio di
disastri, e che ancora pretende di interpretare i tempi senza
riuscire a comprenderli, non potrebbe esserci. Ma in questo vuoto di
conoscenze (ambientali e sociali) e di pensiero strategico i rischi
autoritari si moltiplicano.

Davanti a noi c’è
un’altra strada; perché sedi dove si producono idee le abbiamo,
anche se ancora gracili: sono i mille comitati di lotta, i centri
sociali, i circoli culturali, le associazioni civiche, alcune
riviste, molti blog, le associazioni studentesche, le pratiche
alternative dei GAS, dei DES, delle reti di insegnati, molte imprese
sociali, alcune rappresentanze sindacali. Anche alcune idee
importanti e condivise, nuove rispetto ai termini di un dibattito
politico ormai sclerotizzato, ci sono. Sono quella dei “beni
comuni”: da difendere dall’accaparramento privato e dalla
gestione burocratica e corrotta degli organismi statuali attraverso
forme di trasparenza integrale, di controllo dal basso e di gestione
partecipata; e da estendere a tutte le risorse naturali indivisibili,
ai servizi pubblici, ai saperi. E poi l’idea della
territorializzazione dei rapporti economici: mercati agricoli e
alimentari a chilometri zero; rapporti diretti con i fornitori che
garantiscono qualità dei prodotti, dei processi e delle condizioni
di lavoro; coinvolgimento di tutti gli stakeholder (lavoratori,
utenti, amministrazioni locali, associazioni, centri di ricerca,
imprese fornitrici e utilizzatrici) nella riconversione di produzioni
in crisi, obsolete o dannose (a partire dalle armi: meno spese, meno
consumo di risorse, meno guerre); e impegno in tutte le attività di
salvaguardia dei territori e della loro vivibilità. Di qui la
convinzione che la salvezza non verrà dalla “crescita”,
che significa ogni giorno di più devastazione del pianeta, delle
condizioni di vita e dei rapporti sociali; e che i vincoli imposti
dai mercati – dalle parità di bilancio agli aumenti di fatturato,
dal rendimento dei bot agli andamenti delle borse – non sono totem a
cui ci si debba piegare. Lungo questi filoni di pensiero, e dentro
queste pratiche e questi organismi, può rendere forma e formarsi una
nuova classe dirigente: una cittadinanza attiva che si metta in grado
di esautorare e sostituire gli uomini che oggi sono al potere, in
tutti gli ambiti e a tutti i livelli, sia negli organismi statali e
amministrativi, che nelle imprese: quelle che hanno sostenuto per
anni Berlusconi e che oggi vogliono far pagare il costo dei loro
disastri a chi non ne ha mai condiviso le responsabilità, né
avrebbe potuto farlo.

Ma può un movimento dal
basso, fatto di organismi dispersi e pratiche differenti, governare e
dirigere un processo di transizione di questa portata? Che per di più
sta andando e andrà incontro a resistenze pesanti e reazioni
violente? Certamente no. Nessuno, credo, prospetta una cosa simile.
Ma le forze, le idee e la determinazione per intraprendere un
percorso del genere non possono nascere in nessuna altra sede e in
nessun altro modo. D’altronde non si tratta di processi isolati: le
donne e gli uomini alla ricerca di un mondo diverso, che lo ritengono
possibile, sono milioni in ogni parte della Terra. E se il processo
avrà un seguito, anche molti spezzoni delle attuali classi dirigenti
potranno separarsi dalla matrice in cui sono cresciute e forgiate; ma
è un processo che può svilupparsi intorno a idee e sedi che oggi
occorre ancora diffondere e consolidare.