giovedì 21 Novembre 2024
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Satnam Singh

Satnam Singh è il bracciante di origine indiana morto all’ospedale San Camillo di Roma il 19 giugno, due giorni dopo essere stato abbandonato dal suo datore di lavoro davanti alla casa in cui abitava in provincia di Latina. Un macchinario dell’azienda agricola Lovato in cui lavorava in nero gli aveva tranciato un braccio e rotto le gambe, mentre faceva la raccolta dei meloni. Davanti a casa, insieme all’uomo agonizzante e alla moglie, è stato lasciato anche il braccio mozzato in una cassetta della frutta.
Secondo i risultati dell’autopsia Singh sarebbe morto per l’emorragia e si sarebbe probabilmente potuto salvare se i soccorsi fossero stati chiamati prima. Infatti, dal momento dell’incidente a quello della chiamata al 112 sarebbe passata almeno un’ora e mezza.
Satnam Singh, 31 anni, non aveva il permesso di soggiorno e veniva sfruttato nell’azienda Lovato, insieme alla moglie, almeno dodici ore al giorno, senza un regolare contratto. Dopo la morte del bracciante, alla moglie è stato concesso un permesso di soggiorno dal governo italiano.
Da cinque anni l’azienda Lovato era sotto indagine per caporalato: secondo le accuse usava manodopera straniera per pochi euro al giorno, senza ferie né riposi e con orari di lavoro superiori a quelli consentiti dalla legge.
Meloni ha parlato di “atti disumani che non appartengono al popolo italiano”, ma secondo l’ultimo rapporto Agromafie e caporalato della Cgil un quarto di tutti i braccianti, cioè circa 230mila persone, sono sottoposti a sfruttamento nelle campagne italiane.
Anche il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, cognato di Meloni, ha parlato di un caso isolato che non riguarderebbe tutta la filiera agricola e ha dato la colpa a “un criminale”. Ma le inchieste per caporalato in Italia riguardano diverse decine di aziende.
Secondo i sindacati, nelle circa diecimila aziende agricole della provincia di Latina sono impiegati più o meno undicimila braccianti, ma in realtà sarebbero di più, fino a trentamila, costretti a lavorare in nero perché privi del permesso di soggiorno.
In Italia, a causa della legge sull’immigrazione in vigore – la Bossi-Fini del 2002 – è impossibile per uno straniero già presente sul territorio italiano ottenere un permesso di soggiorno per lavoro. La norma consente solo pochi ingressi regolari all’anno in base a un sistema di quote, che tuttavia non sono sufficienti a rispondere alle necessità del mercato del lavoro e che di fatto crea irregolarità e sfruttamento.
In un articolo apparso su “La Repubblica” del 22 giugno la giornalista Concita De Gregorio ci informa che l’azienda agricola dove lavorava l’operaio indiano Satnam Singh a Latina “denuncia un profitto annuo di 111 euro e nove dipendenti”. Mi chiedo, come fa a reggersi?
Sono decine e decine, gli schiavi indiani in quei campi, li portano al lavoro coi camion ogni giorno alla luce del sole. Qualcuno è mai andato a fare un controllo, a Latina, o forse no perché quella rete elettorale, in una terra ad altissima densità criminale, è comodo lasciarla stare?

Ma non fermiamoci all’indignazione.
Quello che è successo nell’Agro Pontino è già accaduto altrove per delitti simili: due anni fa ad Acate, nel Ragusano, quando l’operaio Douda Diane è sparito nel nulla dopo che aveva postato  sui social due video di denuncia sulla sicurezza dell’impresa edile in cui lavorava; a Genova nel 2023 quando è stato ritrovato in mare il corpo di Mahmoud Abdalla decapitato, amputato dai suoi datori di lavoro ai quali aveva ostato chiedere di essere regolarizzato; oppure a Rosarno dove Sacko Soumaila era colpito a morte a fucilate mentre cercava in una fabbrica abbandonata pezzi di lamiera per coprire la sua baracca. Vite e morti di uomini, cronaca di malvagità che colpisce soprattutto stranieri disperati. Assassini e vittime di serie C, da rimuovere velocemente dalla nostra memoria.
Non si pensa mai che sono nuovi italiani, lavorano per noi, parlano italiano, vivono da anni nel nostro Paese, i loro e nostri figli frequentano la stessa scuola e cresceranno insieme. E noi li abbiamo resi schiavi. Non solo in agricoltura, ma anche in edilizia, nella zootecnica, nella pesca, nella logistica e pure nella produzione di beni di lusso dove borse e vestiti vengono prodotti per pochi euro in laboratori lager, per poi essere venduti a migliaia di euro da famose griffe.
La regolarità produce diritti ma è anche un costo, come sanno bene gli imprenditori onesti che la pagano. L’irregolarità è un vantaggio come sanno bene i disonesti che eludono gli obblighi previdenziali, fiscali, ambientali e di sicurezza. L’irregolarità rende, e molto, ai danni di tutti noi.
La prima risposta è l’applicazione delle tutele del lavoro, a iniziare dalla regolarizzazione dei lavoratori stranieri, anticamera di una parvenza di cittadinanza.