Ambiente e Copenhagen a rischio
Il
vertice sul cambiamento climatico che si svolgerà a Copenhagen a
dicembre sembra avviarsi già verso il fallimento.
Da
una parte ci sono i paesi in via di sviluppo che si rifiutano di
fissare obiettivi vincolanti e concreti di riduzione delle emissioni
di gas a effetto serra, dall’altro ci sono gli Stati Uniti che si
rifiutano di firmare qualsiasi impegno internazionale prima che il
senato, dopo la camera, approvi la legge di riduzione delle emissioni
del 17 per cento per il 2020.
Nel
mezzo c’è l’Unione Europea, che nei vertici precedenti ha fissato
degli impegni concreti di riduzione delle emissioni del 20 per cento
e, se altri si impegneranno a fare lo stesso, è disposta ad arrivare
al 30 per cento. L’Unione Europea si è anche detta disponibile a
dare un contributo di cinquanta miliardi di dollari l’anno, la metà
delle risorse necessarie, per aiutare i paesi emergenti (che secondo
le stime dell’Agenzia internazionale dell’energia, presto si
trasformeranno nei principali inquinanti) a ridurre le emissioni.
Ma
in questo momento l’Unione Europea non ha un peso politico specifico
e quindi il vertice di Copenhagen si tradurrà, a meno di clamorose
sorprese, in un nulla di fatto.
La
debolezza dell’Unione Europea si è notata recentemente durante il
vertice tra Stati Uniti e Cina, quando i due paesi hanno annunciato
l’impossibilità di un accordo sul clima a Copenhagen. Anche qui
sono in ballo interessi diversi: da una parte quelli degli Stati
Uniti, il cui presidente Obama si è reso conto che tra la volontà
di cambiare rotta sul clima e la sua trasformazione in atti giuridici
le difficoltà sono molto maggiori del previsto; dall’altra parte la
Cina (di cui si vocifera che si appresterebbe ad annunciare un taglio
dell’intensità delle emissioni di carbonio, rispetto al
tendenziale 2020, del 40-45%), estremamente proiettata verso le
energie rinnovabili (ha la leadership mondiale della produzione
mondiale di moduli fotovoltaici, è numero uno nella installazione di
solare termico ed è in rapidissima crescita nell’eolico) ma che
diffida di imposizioni di obiettivi vincolanti.
Intanto
però l’ambiente non sembra attendere. Uno studio realizzato da 31
ricercatori di sette nazioni (Gran Bretagna, Australia, Stati Uniti,
Francia, Brasile, Norvegia e Olanda) e pubblicato online nella
rivista Nature Geoscience1sostiene chel’equilibrio fin qui esistente tra le emissioni di
anidride carbonica (CO2) e la capacità di assorbimento da parte
degli ambienti naturali, soprattutto gli oceani, si è rotto e, se la
rotta non sarà cambiata rapidamente con azioni concrete, la
temperatura globale è destinata a crescere fino di 6 gradi, con
conseguenze catastrofiche per tutti.
Corinne
Le Quere2,
coordinatrice della ricerca, sostiene chese alla prossima
conferenza sul clima di Copenhagen non si troverà un accordo per
stabilizzare e ridurre le emissioni di gas serra, l’aumento della
temperatura globale non sarà di 2-3 gradi come fin qui ipotizzato,
ma arriverà anche a 5-6 gradi entro la fine dell’attuale secolo o
nella prima metà del prossimo. Il fatto è che, dopo il mancato
accordo tra Cina e Usa sulla riduzione delle emissioni, la conferenza
di Copenhagen appare già destinata a non produrre nulla di concreto
ancora prima di iniziare.
E
quest’ultimo studio sembra destinato ad essere l’ennesima ricerca
scientifica inascoltata.
Gianni
Silvestrini, direttore scientifico di QualEnergia e Kyoto Club, ha
proposto sul sito qualenergia.it una mobilitazione dell’opinione
pubblica in grado di imporre, attraverso una straordinaria
mobilitazione, un accordo che eviti un esito catastrofico del
cambiamento del clima.
Sarebbe
opportuno che associazioni come Legambiente, Wwf e Greenpeace
raccogliessero questo appello.
1Ricerca
condotta nell’ambito del Global Carbon Project, fondato nel 2001 per
quantificare le emissioni globali di anidride carbonica e
individuarne le cause.
2Dell’università
britannica di East Anglia e del British Antarctic Survey.