lunedì 9 Settembre 2024
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L’abbaglio ideologico

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Pubblichiamo
un altro intervento di Guido Viale, tratto dal quotidiano “Il
Manifesto” del 23 giugno 2010, nel quale risponde ad alcune
critiche che diversi commentatori hanno sollevato alsuo
precedente articolo
. Ricordiamo che Guido Viale è stato
recentemente nostro ospite come relatore all’incontro “Smog on the
road” sul tema del trasporto pubblico.

Il
Foglio di sabato scorso ha dedicato un’intera pagina a commentare unmio
articolo sulla crisi della Fiat di Pomigliano
corredando il
servizio con il pugno di Lotta Continua, il gruppo in cui ho militato
negli anni settanta e che si è dissolto 34 anni fa.
Troppa
grazia. La cosa ha offerto a molti miei critici l’occasione per dare
la stura ai più triti stereotipi sugli anni 70 e sull’ambientalismo,
quasi non avessero mai letto o sentito parlare prima di green economy
o di riconversioni produttive. Per Stefano Cingolani: «in certe
assemblee gauchiste c’era chi si alzava proponendo che la Fiat
fornisse brandine agli ospedali». Che assemblee avrà mai
frequentato Cingolani in quegli anni? Non certo l’assemblea
operai-studenti di Mirafiori, dove si parlava di cose molto serie,
che hanno fatto la storia del paese. Scrive Sergio Soave: «Viale
ripropone la tesi dell’imminente crollo del capitalismo». Ma quando
mai? E riassume il mio pensiero così: «una nuova sintesi di
deindustrializzazione e mangiatori di fragoline di bosco». Francesco
Forte mi attribuisce «la teoria per cui il capitalismo è un
imbroglio e l’economia di mercato una mistificazione». Magari lo
penso; ma non l’ho certo scritto e non sta tra le premesse del mio
discorso. Analogamente Gianni Riotta, sul Sole24ore, mi accusa di
«dare del venduto a Cisl e Uil e quasi tutta la Cgil», e
addirittura, al premio Nobel Paul Krugman, per aver scritto che per
dar credito al piano della Fiat per Pomigliano bisogna essere in
malafede o dementi. Sul dementi mi attengo al giudizio degli
interessati. Ma si può essere in malafede senza essere venduti.
Basta dar credito senza dare spiegazioni a cose che non lo meritano.
E’ quello che fa Riotta e, con lui, quasi tutti i sostenitori del
piano Marchionne: non si chiedono se il piano è credibile. Su questo
punto diamo la parola al Foglio.

Scrive
Ernest Ferrari: «D’accordo, il piano di sviluppo targato Marchionne
è irrealizzabile». Risponde Bruno Manghi: «Quella di Marchionne è
una scommessa che nessuno può prevedere con certezza come finirà».
Ammette Riccardo Ruggeri, uno che conosce la Fiat «dall’interno»:
«Sui sei milioni di macchine Viale non ha tutti i torti». E
aggiunge: «Magari tra non molto Marchionne chiederà altri
sacrifici, perché il mercato non tira. Marchionne l’ha fatto capire
più di una volta». Poi precisa: «ho paura che stia tornando la
moda dei volumi (di vendite)piuttosto che dei talenti…anche alla
Volkswagen hanno sposato la teoria dei volumi; ma ci hanno messo 15
anni, investendo una montagna di soldi». «Insomma, c’è aria di
bluff?» chiede l’intervistatore. E lui risponde: «Marchionne fa
quel che può».

Anche
Cingolani si chiede: «Chi può garantire che le auto non restino sui
piazzali? E quanto costeranno i modelli sfornati dalle catene di
montaggio?» Domande senza risposta. Cingolani le affronta con un suo
personale «piano B»; questo sì, datato agli anni ’70: quando i
cosiddetti paesi emergenti adottavano le tecnologie abbandonate dai
paesi più industrializzati, e questi passavano a produzioni a più
alto valore aggiunto (Era la teoria di Hirschmann delle “anatre
volanti”, che si alzano in volo in ordine, una dietro l’altra).
Ma oggi Cina, India e Brasile hanno, sì, costi del lavoro e
ambientali più bassi; ma anche livelli tecnologici paragonabili ai
nostri e capacità di ricerca e sviluppo superiori (anche perché da
noi scuola e ricerca sono state gettate alle ortiche). Inoltre, senza
impianti di assemblaggio a portata di mano, l’innovazione tecnologica
e organizzativa non ha verifiche. Quindi, perché il distretto
automobilistico torinese possa mantenere i suoi atout in campo
motoristico e dello styling, una parte del montaggio dovrà comunque
restare in Italia. Ma non è detto che tocchi a Pomigliano.
Nell’assemblaggio, più che altrove, a contare sono i costi. Lo
conferma Michele Magno: «La sorte dello stabilimento campano è
legata a un drastico abbassamento dei costi». L’unico a non nutrire
dubbi sul piano Marchionne è Francesco Forte. E sapete perché?
Perché «il piano è stato valutato positivamente dalle banche e
dalla borsa»: due istituzioni che hanno raggiunto la credibilità
più bassa della loro storia.

Fatto
sta che, se è improbabile riuscire a vendere sei milioni di auto
all’anno (un raddoppio della produzione) sui mercati di un’industria
sovradimensionata e oggetto di una feroce concorrenza non solo tra
gruppi industriali, ma anche tra Stati, l’aumento della produzione in
Italia da 600mila a 1,4 milioni di vetture è ancora più
improbabile; soprattutto perché questa produzione dovrebbe per due
terzi essere smerciata in Europa. Le sorti di Pomigliano sono legate
a questi obiettivi. Qualcuno ha provato a spiegare come raggiungerli?
O si vuole far credere che l’unico vero problema è l’abnorme tasso
di assenteismo e che un maggiore impegno contro di esso rimetterebbe
le cose a posto?

Persino
Riotta introduce qualche variabile in più. Oltre all’assenteismo,
scrive «per giocare nella Coppa del mondo del lavoro» bisogna fare
i conti con «clientele, performance scadenti, familismo amorale,
raccomandazioni». A cui io aggiungerei doppio e triplo lavoro (ma
non sarà un problema di salari insufficienti?), degrado del
territorio, monnezza (da non dimenticare), sfacelo amministrativo,
corruzione, collusioni politiche, camorra. Tutti problemi che non si
sono certo fermati ai cancelli della fabbrica, ma che sono ben
presenti al suo interno.

Nel
management più ancora che tra le maestranze. Pensare di isolare la
fabbrica dal territorio e di risolvere i suoi problemi con la
disciplina del lavoro è utopia vana e crudele.

Nel
1968 la Fiat pensò di inquadrare con una disciplina di ferro 15mila
nuovi assunti, messi al lavoro a Mirafiori tutti d’un colpo, senza
preoccuparsi di che cosa sarebbe successo fuori della fabbrica: nel
tessuto urbano di una città che tra l’altro era “sua”, ma
dove per i nuovi assunti non c’era nemmeno un posto per dormire. Ne
nacque una lotta che ha sconvolto gli stabilimenti del gruppo per i
successivi dodici anni. Adesso si pretende di mettere in riga, con un
accordo sui turni e i ritmi di lavoro e con i limiti posti al diritto
di scioperare e ammalarsi, uno stabilimento industriale i cui
problemi nascono soprattutto dal degrado del tessuto sociale
circostante. Non dice niente, per esempio, il fatto che a presidiare
il gazebo installato a sostegno dell’accordo ci fosse il
sottosegretario Cosentino, incriminato per camorra, ma “immunizzato”
dal Pdl?

Nessuno,
prima di Prodi, aveva ancora fatto notare che la “rieducazione”
degli operai di Pomigliano – per usare il termine carcerario che ben
si adatta al modo in cui l’establishment italiano, politico,
sindacale, imprenditoriale e giornalistico, sta affrontando il loro
futuro – è già stata tentata due anni fa: con la sospensione
dell’attività lavorativa, l’invio forzato di tutte le maestranze a
un corso di formazione, il riadeguamento degli impianti, la rimessa a
nuovo dei capannoni. Senza risultati.

Chi
può credere, allora, che Marchionne voglia ritentare l’esperimento,
investendoci sopra 700 milioni? Rischiando anche di mettere in crisi
i suoi rapporti con il partner polacco, che in questa fase è uno dei
pochi atout a sua disposizione? Non è forse più sensato ritenere, o
almeno ipotizzare, che Marchionne voglia sbarazzarsi di Pomigliano,
oltre che di Termini Imerese; e non potendo farlo senza mettere in
crisi i suoi rapporti con governo, opposizione, sindacati e
maestranze – magari provocando anche una rivolta tra la popolazione –
cerchi solo il modo per farne ricadere su altri la responsabilità?
Se non sarà l’esito del referendum (verosimilmente non lo sarà)
sarà la Fiom. Se non sarà la Fiom sarà l’iniziativa di base; o il
“disordine” del territorio; o i contenziosi in tribunale; o
un ricorso alla Corte Costituzionale. O, più semplicemente, il
prossimo aggiornamento sulla situazione dei mercati. Intanto, a
segnare un punto, è stata la politica antioperaia di tutto il
governo.

Sembra
però che la conversione ambientale dello stabilimento di Pomigliano,
o di altre fabbriche in crisi, urti contro la centralità della
produzione automobilistica (una volta la centralità era della classe
operaia, ma i tempi sono cambiati). «E’ indubbio – scrive Michele
Magno – che il settore automobilistico, pur maturo sul piano
merceologico e tecnologico, continui a incarnare lo spirito del
tempo»; perché «continua a svolgere un ruolo cruciale sia nella
formazione del Pil, sia nella dinamica occupazionale»; e perché «il
cuore delle innovazioni organizzative…continua a pulsare qui».

Nessuno
però ha proposto di chiudere il settore automobilistico dall’oggi al
domani. Basterebbe non strafare con i volumi, come raccomanda anche
Ruggero. E non gravare un gruppo già provato con un peso che
probabilmente non può sostenere. «E’ in gioco – continua Magno – il
futuro di quel che resta della classe operaia meridionale».
D’accordo. Ma, proprio per questo, non sarebbe bene pensare a delle
alternative per uno stabilimento così a rischio?

Per
verificare se è vero che l’azienda vorrebbe sbarazzarsi di
Pomigliano bisognerebbe poterla mettere di fronte a una alternativa
praticabile, esigendo impegni precisi a garanzia del processo di
conversione. Non certo di assumerne la gestione, per la quale vanno
comunque individuati soggetti, attori e culture aziendali differenti.
Bensì la cessione degli impianti e il finanziamento della
transizione. Ma oggi un’alternativa del genere non c’è. Nessuno ci
ha pensato; e nessuno sembra neanche in grado o disposto a pensarci;
anche se l’adozione di un’alternativa praticabile converrebbe
sicuramente sia alla Fiat, che ai lavoratori, che al paese. E anche
al pianeta.

Ma
nessuno potrebbe mai pensare di avviare la riconversione di uno
stabilimento industriale alla green economy con una semplice stretta
della disciplina di fabbrica, come molti pensano – e sperano – che si
possa fare invece trasferendo la Panda a Pomigliano. Perché una
conversione produttiva di quella portata e con quelle finalità è
proprio l’opposto di quell’idea “larvatamente autoritaria”
di chi dice «Farò io il vostro bene» pensando di poter
«pianificare le svolte dello sviluppo», come sostiene Bruno Manghi
sul Foglio e Riotta ripete sul suo giornale.

Infatti,
se non si può pensare di cambiare una fabbrica solo con la
disciplina, occorre passare attraverso la mobilitazione delle forze
sane del territorio, una discussione sulle ragioni della conversione,
un coinvolgimento delle risorse intellettuali delle comunità
interessate. Per poi procedere a verifiche di mercato, a
progettazioni di massima, e alle battaglie per impegnare i diversi
livelli del governo locale e nazionale. Sono cose che non si
preparano né in un giorno né in un anno; c’erano però da anni
molti motivi per cominciare a lavorarci. Ma non è mai troppo tardi.
Perché se il piano Marchionne è un bluff, bisognerebbe evitare di
ritrovarsi nella situazione di Termini Imerese, dove ogni giorno si
escogitano altri bluff con il solo scopo di «tener buoni» gli
operai lasciati sul lastrico.