La guerra dei due mondi
Pubblichiamo
con molto piacere un altro articolo di Guido Viale tratto dal
quotidiano “Il Manifesto” del 4 marzo 2012. Guido Viale è
stato nostro ospite quest’anno e nel 2010 come relatore
rispettivamente negli incontri “Il
prezzo della crisi” e “Smog
on the road”.
Quello
in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro di civiltà»: la
manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici di concepire
e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il territorio,
l’attività economica, la cultura, il diritto, la politica. Per
questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato – inaudita,
per un contesto che ufficialmente non è in guerra – e tanta
determinazione – inattesa, per chi non ne comprende la dinamica – da
parte di un’intera comunità.
Quale
che sia l’esito, a breve e sul lungo periodo, di questo confronto
impari, è bene che tutte le persone di buona volontà si rendano
conto della posta in gioco: può essere di grande aiuto per gli
abitanti della Valle di Susa; ma soprattutto di grande aiuto per le
battaglie di tutti noi.
Da
una parte c’è una comunità, che non è certo il retaggio di un
passato remoto, che si è andata consolidando nel corso di 23 anni di
contrapposizione a un progetto distruttivo e insensato, dopo aver
subito e sperimentato per i precedenti 10 anni gli effetti devastanti
di un’altra Grande Opera: l’A32 Torino-Bardonecchia.
Gli
ingredienti di questo nuovo modo di fare comunità sono molti.
Innanzitutto la trasparenza, cioè l’informazione: puntuale,
tempestiva, diffusa e soprattutto non menzognera, sulle
caratteristiche del progetto. Un’informazione che non ha mai nascosto
né distorto le tesi contrarie, ma anzi le ha divulgate (a differenza
dei sostenitori del Tav), supportata da robuste analisi tecniche ed
economiche: gli esperti firmatari di un appello al governo Monti
perché receda dalle decisioni sul Tav Torino-Lione sono più di 360;
significativo il fatto che un Governo di cosiddetti «tecnici» il
parere dei tecnici veri non lo voglia neppure ascoltare. Poi c’è
stata un’opera capillare di divulgazione con il passaparola – forse
il più potente ed efficace degli strumenti di informazione – ma
anche con scritti, col web (i siti del movimento sono molti e sempre
aggiornati) e col sostegno di alcune radio; ma senza mai avere
accesso – in 23 anni! – alla stampa e alle tv nazionali, se non per
esserne denigrati.
Secondo,
il confronto: il movimento non ha mai esitato a misurarsi con le tesi
avverse: nei dibattiti pubblici – quando è stato possibile – nelle
istituzioni; nelle campagne elettorali; nelle amministrazioni; nel
finto «Osservatorio» messo in piedi dal precedente governo e
diretto dall’architetto Virano, che non ha mai avuto il mandato di
mettere in discussione l’opera ma solo quella di imporne comunque la
realizzazione. Strana concezione della mediazione! La stessa del
ministro Cancellieri: «Discutiamo; ma il progetto va comunque
avanti». E di che si discute, allora? Grottesca poi – ma è solo
l’ultimo episodio della serie – è la fuga congiunta da incontro con
una delegazione del parlamento europeo del sindaco di Torino e dei
presidenti di provincia e regione Piemonte il 10 febbraio scorso. Ma
ne risentiremo parlare. Il terzo elemento è il conflitto: non
avrebbe mai raggiunto una simile dimensione e determinazione se
l’informazione non avesse avuto tanta profondità e diffusione. Ma
sono le dure prove a cui è stata sottoposta la popolazione ad aver
cementato tra tutti i membri della cittadinanza attiva della valle
rapporti di fiducia reciproca così stretti e solidi.
Il
quarto elemento è l’organizzazione, strumento fondamentale della
partecipazione popolare: i presìdi, numerosi, sempre attivi e
frequentati, nonostante le molteplici distruzioni di origine sia
poliziesca che malavitosa; le frequenti manifestazioni; i blocchi
stradali; le centinaia di dibattiti (non solo sul Tav; anzi, sempre
di più su problemi di attualità politica e culturale nazionale e
globale) che vedono sale affollate in paesi e cittadine di poche
centinaia o poche migliaia di abitanti; la presentazione e il
successo di molte liste civiche; la rete fittissima di contatti
personali nella valle; il sostegno che il movimento ha saputo
raccogliere e promuovere su tutto il territorio nazionale: Fiom,
centri sociali, rete dei Comuni per i beni comuni, movimento degli
studenti, associazioni civiche e ambientaliste, mondo della cultura,
forze politiche (ma solo quelle extraparlamentari); ecc. La scorsa
estate si è svolto a Bussoleno il primo convegno internazionale dei
movimenti che si oppongono alle Grandi Opere, con la partecipazione
di una decina di organizzazioni europee impegnate in battaglie
analoghe: un momento di elaborazione sul ruolo di questi progetti nel
funzionamento del capitalismo odierno e un contributo sostanziale
alla comprensione del presente. Infine quel processo ha restituito
peso e ruolo a un sentimento sociale (o «morale», come avrebbe
detto Adam Smith) che è il cemento di ogni prospettiva di
cambiamento: l’amore; per il proprio territorio, per i propri vicini,
per il paese tutto; per i propri compagni di lotta e la propria
storia; per le trasformazioni che questa lotta ha indotto in tutti e
in ciascuno; persino per i propri avversari, anche i più violenti.
Non a caso Marco Bruno, il manifestante NoTav messo alla berlina da
stampa e televisioni nazionali per il dileggio di cui ha fatto
oggetto un carabiniere in assetto di guerra (ma, come è ovvio, lo ha
fatto per farlo riflettere sul ruolo odioso che lo Stato italiano gli
ha assegnato) ha concluso il suo monologo con questa frase,
registrata ma censurata: «comunque vi vogliamo bene lo stesso».
E
i risultati? Rispetto all’obiettivo di bloccare quel progetto
assurdo, zero. O, meglio, il ritardo di vent’anni (per ora) del suo
avvio. Ma quella lotta ha prodotto e diffuso tra tutti gli abitanti
della valle saperi importanti; un processo di acculturazione (basta
sentire con quanta proprietà e capacità di affrontare questioni
complesse si esprimono; e poi metterla a confronto con i vaniloqui
dei politici e degli esperti che frequentano i talkshow); una
riflessione collettiva sulle ragioni del proprio agire. Ha creato uno
spazio pubblico di socialità e di confronto in ogni comune della
valle. Ha permesso di rivitalizzare una parte importante delle
proprie tradizioni. Ha unito giovani, adulti, anziani e bambini,
donne – soprattutto – e uomini in attività condivise che non hanno
uguale nelle società di oggi. Ha allargato gli orizzonti di tutti
sul paese, sul mondo, sulla politica, sull’economia (altro che
«nimby»! Il «Grande Cortile» della Valle di Susa ha spalancato
porte e finestre sul mondo e sul futuro di tutti). Ha creato e
consolidato una rete di collegamenti formidabile. Ha ridato senso
alla politica, all’autogoverno, alla partecipazione: per lo meno a
livello locale. Ha aiutato tutti a sentirsi più autonomi, più
sicuri di sé, più cittadini di una società da rifondare. Infine, e
non avrebbe potuto accadere che in un contesto come questo, ha messo
in moto un movimento di gestione etica e ambientale delle imprese,
riunite in un’associazione, «Etinomia», che conta in valle già 140
adesioni, e che rappresenta la dimostrazione pratica di come la
riconquista di spazi pubblici autogestiti sia la condizione di
un’autentica conversione ecologica.
E
dall’altra parte? Schierati contro il movimento NoTav ci sono la
cultura, l’economia, la metafisica e la violenza delle Grandi Opere:
la forma di organizzazione più matura raggiunta (finora) del
capitalismo finanziario: la «fabbrica» che non c’è più, divisa in
strati e dispersa in miriadi di frantumi. Le caratteristiche di
questo modello sociale, che ritroviamo tutte nel progetto
Torino-Lione, sono state esemplarmente enucleate da Ivan Cicconi ne
Il Libro nero dell’alta velocità (Koiné; 2011) e qui mi limito a
richiamarle per sommi capi. La «Grande Opera» è innanzitutto un
intervento completamente slegato dal territorio su cui insiste,
indifferente alle sue sorti prima, durante e soprattutto dopo la fine
dei lavori, quando, compiuti o incompiuti che siano, li abbandona
lasciando dietro di sé il disastro. Non è importante che sia utile
o redditizia. Col Tav Milano-Torino dovevano correre, su una linea
dedicata ed esclusiva, 120 coppie di treni al giorno; ne passano 9:
quasi sempre vuoti. L’importante è che la «Grande Opera» si faccia
e che alla fine lo stato paghi. E’ una grande consumatrice di risorse
a perdere: suolo, materiali, energia, denaro (ma non di lavoro,
comunque temporaneo e per lo più precario, che a lavori conclusi
viene abbandonato a se stesso insieme al territorio). Per questo ha
bisogno di grandi società di gestione e di grandi finanziamenti,
cioè del coinvolgimento diretto di banche e alta finanza (il
ministro Corrado Passera ne sa qualcosa); non per assumersi l’onere
della spesa, ma solo per fare da schermo temporaneo a un
finanziamento che alla fine ricadrà sul bilancio pubblico E’ il
modello del project financing , l’apogeo dell’economia finanziaria
che ci ha portato alla crisi, inaugurato trent’anni fa
dall’Eurotunnel sotto la Manica.
Quanto
al Tav, le tratte Torino-Milano-Roma-Salerno dovevano essere
finanziate almeno per metà dai privati; il loro costo, lievitato nel
corso del tempo da 6 a 51 miliardi di euro (ma molti costi sono
ancora sommersi e, una volta completate le tratte in progetto,
supereranno i 100 miliardi) è stato interamente messo a carico dello
Stato (cioè del debito pubblico). Ma per il Tav in Valle di Susa non
si parla più di project financing : la fretta è tale che si dà
inizio ai lavori senza sapere dove prendere i soldi. Si aspettano
quelli dell’UE, che forse non verranno mai, spacciando questa attesa
per un impegno «imposto dall’Europa». Ma perché quei costi sono
quattro volte quelli di tratte equivalenti in Francia o in Spagna? E’
il «Grande Segreto» delle nostre «Grandi Opere»: il subappalto.
Le Ferrovie dello stato hanno affidato – in house , cioè senza gara
– la realizzazione dell’intero progetto a Tav Spa, sua filiazione
diretta. TavSpa, sempre senza gara, ha affidato il progetto a tre
General contractor (le tre maggiori società italiane all’epoca:
1991), tra cui Fiat. Fiat ha fatto il progetto della Torino-Milano e
ne ha affidato la realizzazione a un consorzio della sua – allora –
controllata Impregilo (quella dei rifiuti in Campania e del disastro
ambientale in Mugello). Impregilo ha diviso i lavori in lotti e li ha
affidati, senza gara, a una serie di consorzi di cui lei stessa è
capofila; e questi hanno affidato a loro volta le forniture e le
attività operative a una miriade di ditte minori, attraverso cui
hanno fatto il loro ingresso nella «Grande Opera» sia il lavoro
nero che la ‘ndrangheta: la stessa, ben insediata a Bardonecchia, che
da tempo aspetta l’inizio dei lavori sulla Torino-Lione e ha già
ampiamente contrattato (vedi l’inchiesta giudiziaria Minotauro) il
voto di scambio con i principali partiti della Regione. I lavori che
all’ultima ditta della catena vengono pagati 10 Fiat li fattura a
TavSpA a 100. La differenza è l’intermediazione dei diversi anelli
della catena, tra cui non mancano partiti e amministrazioni locali.
Ecco che cos’è la «crescita» affidata alle «Grandi Opere». Ed
ecco perché per imporre una soluzione del genere occorre occupare
militarmente il territorio. E perché ci vuole un Governo «tecnico».
Così Monti è il benvenuto.