sabato 27 Luglio 2024
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Una guerra per la tecnologia

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Da
anni si dibatte se l’uso dei cellulari abbia o meno delle conseguenze
sulla salute degli esseri umani. Vediamo spesso gente in allarme
appena qualche società decide di installare un ripetitore vicino al
proprio giardino di casa (senza il quale però nessun cellulare
funzionerebbe): una preoccupazione indirettamente proporzionale alla
distanza dello stesso, classico esempio diNIMBY.


Ma
la preoccupazione che dovremmo nutrire sui cellulari (e sui pc) non è
solo quella riguardante la nostra salute: dovremmo porci anche delle
domande su come vengono ottenute le materie prime necessarie per
costruirli.
A
questo riguardo propongo la lettura di un articolo tratto dalla
rivista “Nigrizia” del 2 maggio 2016.
Una
voce della giustizia e della pace è stata messa a tacere. Domenica
20 marzo è stato ucciso padre Vincent Machozi Karunzu. Da anni
andava denunciando il genocidio del suo popolo, l’etnia nande nel
Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, vittima dello
sfruttamento illegale dei minerali che si trovano in quella terra.
Recentemente, il sacerdote aveva chiesto un’indagine internazionale
che avrebbe dimostrato il coinvolgimento dei presidenti congolese e
rwandese nei massacri compiuti nella regione da gruppi armati. La sua
voce era diventata troppo scomoda, per questo è stata zittita. Ora
il suo popolo – orfano di una guida, ammutolito e terrorizzato –
è più solo e isolato.
Ma
che c’entriamo noi con l’uccisione di questo coraggioso sacerdote
e di quella di milioni di persone, morte nella guerra che si combatte
da oltre dieci anni nella regione del Kivu? La risposta è conosciuta
ai più. Ma vale la pena rinfrescare la memoria. Alcuni dei minerali
(columbite, tantalio, tungsteno…) che si trovano in quell’area
dell’Rd Congo sono componenti essenziali per costruire cellulari,
tablet e computer, che tanti di noi usano quotidianamente. Quei
minerali si trovano anche nei giacimenti in Canada e Australia. Ma le
multinazionali preferiscono quelli importati dal Kivu: hanno costi
inferiori perché frutto –lo vogliamo ribadire– del lavoro
schiavo in miniere illegali, dove non sono risparmiati neppure i
bambini, impiegati a estrarre i minerali nei tunnel più stretti.

Quindi
sì, c’entriamo anche noi, fruitori finali dei beni sottratti
all’Rd Congo. Ogni volta che acquistiamo il cellulare e altri
strumenti elettronici siamo indirettamente complici della violenza e
della barbarie che si perpetuano nella regione orientale di quel
paese. E la produzione di quei minerali è stimolata dalla
martellante pubblicità che sollecita la clientela in ogni angolo del
mondo ad acquistare cellulari della nuova generazione. Più che per
necessità per inseguire una moda diffusa, senza pensare che tutto
ciò va ad aumentare le condizioni di sfruttamento dei lavoratori in
Kivu, alimentando il clima di violenza nelle zone di conflitto.

La
riduzione del consumo di manufatti elettronici è un primo passo di
giustizia: contribuisce a far diminuire la produzione di quei
minerali e ad abbassare il livello di conflittualità nella regione
dove viene estratto. Ma occorre fare anche un altro passo. A livello
giuridico. Da tempo numerose associazioni, in Italia e in Europa, si
stanno battendo affinché l’Unione europea si doti della
legislazione sulla tracciabilità dei minerali, dall’inizio del
processo di purificazione alla produzione dei manufatti, in modo che
i consumatori possano acquistare telefonini e altri dispositivi
elettronici sicuri di non finanziare la guerra con i loro acquisti.
Legislazione
fortemente caldeggiata dalla Conferenza episcopale congolese e da
oltre cento vescovi nel mondo, che sul tema hanno sottoscritto una
petizione all’Ue. A dire il vero, il Parlamento europeo ha
approvato, nel maggio del 2015, un progetto di regolamento chiamato a
certificare l’origine legale dei minerali, come stagno, tantalio,
tungsteno e oro. Ma, negli ultimi mesi, il Consiglio dell’Ue
–formato dalla Commissione europea e dai 28 stati membri dell’Ue–
ha annacquato il provvedimento a favore di un sistema volontario e
parziale, non più vincolante per i paesi europei.
La
battaglia legale, però, deve continuare, con l’appoggio di una
opinione pubblica sensibile e informata. Per questo il mensile
«Nigrizia» sostiene la campagna lanciata da enti come la Focsiv
[Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale
volontario], la Rete per la pace in Congo in Italia e, a livello
europeo, il Cidse [che raggruppa 18 organizzazioni impegnate per lo
sviluppo] affinché l’Ue adotti un provvedimento legislativo che
imponga l’obbligo della tracciabilità, in modo da recidere il
legame tra l’estrazione dei minerali e il finanziamento dei
conflitti armati.
Un
modo concreto per sostenere la campagna è la sottoscrizione della
petizione che si trova in questo sito [clicca
qui
].
La
solidarietà verso i nostri fratelli e sorelle del Kivu ci spinge ad
assumere la nostra responsabilità come consumatori e cittadini. Per
far sì che il sacrificio di padre Machozi non sia vano e la sua
gente possa godere delle ricchezze del territorio con un lavoro
dignitoso, nella pace e nella legalità.”